Valentina Mezzacappa
Un artista e una scrittrice

L’incubo del realismo

Non c'è solo il realismo (socialista) alla maniera di Deineka. Prendete il romanzo "E ora parliamo di Kevin" di Lionel Shriver: l'ossessione per la realtà e i suoi particolari sconfina presto in un'adesione totale ai propri incubi

Va bene, parliamo un po’ di Kevin, come ci suggerisce Lionel Shriver nel suo celebre romanzo. Un attimo di timore, gambe che tremano, piedi che sembrano scivolare nelle sabbie mobili. Un cellulare irraggiungibile. Perché Franklin non risponde? Poi la paura si trasforma in un attimo di euforia ed Eva decide. Eva Katchadourian, un genocidio quello armeno inscritto nel DNA, giramondo per lavoro, fondatrice della franchise di guide turistiche A Wing and a Prayer, una casa che combina sapientemente l’etnico con lo stile tipicamente newyorchese del loft proprio come il suo modo di vestire al quale non manca mai un elemento recuperato in qualche suk, decide di diventare madre. Per la ragione sbagliata. Per cementare un rapporto.

L’enormità e la profonda complessità della sua scelta non tardano a farsi sentire sin dai giorni della gravidanza. E cozzano con una donna che si sente sin troppo a proprio agio nella sua libertà e indipendenza, che basta a se stessa, che l’unica persona per cui è veramente capace di provare amore è il suo compagno Franklin, una donna che forse non è mai veramente cresciuta del tutto. Sono sentimenti contrastanti: dall’impotenza che affligge ogni futura madre davanti ad un corpo che cambia inesorabilmente a infantili lamentele riguardanti il consumo di alcool, che per chi ancora non lo sappia (in Italia si presta ancora sin troppa poca attenzione a simili cose) può provocare la FASD, la Fetal Alcohol Spectrum Disorder, malattia capace di provocare lievi ritardi mentali, difetti fisici, problemi sociali.

Fa contrappeso al personaggio di Eva quello del suo compagno wasp Franklin Plaskett al quale il libro è indirizzato, essendo esso sotto forma di epistolario. Il senso di paternità di Franklin, come asserisce più volte nell’arco del romanzo Eva (e nonostante tutti i suoi difetti è impossibile non darle ragione) è qualcosa di profondamente americano, di vintage nella sua americanità, capace di riportare alla memoria padri e figli che vanno a pescare, vicini di casa che si salutano fra di loro mentre tagliano specularmente i loro prati davanti a casa e un senso del dovere che non è più di questo mondo dotato di una lontana e debole essenza di militarismo patriottico. Forse non è nemmeno un caso che questo personaggio porti il nome de “Il primo americano”, Benjamin Franklin, simbolo della emergente nazione americana. Per tutto l’arco del libro, Franklin sarà una specie di grillo parlante sempre impegnato a ricordare a Eva i suoi doveri di madre e di quanto alle volte risulti tanto incomprensibile l’infanzia con i suoi strani riti, la sua arzigogolata logica e i suoi gusti discutibili al cervello di un adulto.

lionel shriverBen presto però la storia inventata da Lionel Shriver (nella foto qui accanto) assume contorni ambigui e frustranti grazie ai quali riesce poco facile al lettore semplicemente riporre il libro là dove lo aveva lasciato l’ultima volta senza pensarci, senza porsi mille quesiti, fino al prossimo “buco” di tempo libero che gli permetterà di penetrare più a fondo l’universo di Eva. Kevin, questo il nome del bambino, fin dalla nascita ha un comportamento strano. Per esempio il bambino rifiuta da subito il seno. Niente di più normale. La lattazione non è cosa automatica, spesso richiede dedizione, esercizio e anche aiuto da parte di esperti in materia. Ma la storia del rapporto tra Kevin e sua madre è costellata da un numero preoccupante di problemi, ambigui nella loro interpretazione, incasellabili come una delle tante difficoltà di cui è ricca la maternità, come la percezione distorta di una madre insicura o poco portata a crescere un figlio o come le “follie” passeggere tipiche di ogni bambino. Almeno a detta di Franklin che per tutta la storia vive volutamente intrappolato nella sua capsula del tempo.

La storia che racconta Eva è ben diversa e fa rabbrividire, che il lettore sia una madre o un single di sesso maschile. La sua storia parla di un bambino dotato di una straordinaria intelligenza, che manifesta non solo nel modo che ha di parlare (qui di ipercorrettismi chomskiani non se ne vede nemmeno un’ombra lontana) ma anche nel modo in cui è capace di manipolare i genitori, individualmente, riconoscendo le loro caratteristiche, e frapponendosi fra di loro fino a creare un’insanabile frattura. Kevin arriva fino al punto di tenere il pannolino fino all’età di sei anni (cosa che avrebbe mandato probabilmente in visibilio la Klein) e si rifiuta di usare il bagno come chiunque altro fino a quando la madre esasperata non lo scaraventa contro un muro e così facendo gli provoca una frattura esposta del braccio. Non vi è poi una nanny disposta a resistere più di un tot in compagnia del bambino. Tutte rassegnano le loro dimissioni, una addirittura va incontro ad un esaurimento nervoso. Per farla breve, quello che Eva ci descrive è un sociopatico in evoluzione, uno psicopatico. Lei lo sa da subito che c’è qualcosa che non funziona con il suo bambino ma secondo Franklin che crede ancora in quell’America di The Lone Ranger (quello originale) e accecato dalla precoce capacità manipolatrice del figlio non nota nulla al di fuori del normale e scarica ogni colpa sulle spalle della madre definendola impaziente, incapace di dare al figlio un po’ di fiducia, eleggendo lei causa di ogni malefatta del ragazzino.

In quanto sociopatico, Kevin dà davvero del suo meglio. All’asilo induce una bambina affetta da una terribile malattia dermatologica a grattarsi fino al sanguinamento, alla sorellina che arriverà quando lui avrà compiuto sette anni, Celia, rovescerà in faccia dell’acido per sturare le tubature facendole perdere un occhio, vandalizzerà lo studio della madre sparando con il suo fucile ad acqua inchiostro ovunque rovinando le sue mappe ricordo di una vita in giro per il mondo. La lista delle malefatte di Kevin è quasi infinita. E in tutto ciò che lui fa alberga sempre il dubbio. Riesce sempre difficile attribuirgli la colpa. Il dubbio che abbia commesso il crimine c’è ma è pressoché impossibile provarne il coinvolgimento. L’evoluzione di Kevin trova la sua climax nel massacro che poi compierà nella palestra della sua scuola d’elite armato di arco e frecce. Tra le vittime non solo la ragazzina per la quale nutriva una specie di interesse ma anche l’unica professoressa mai interessata alla sua intelligenza e al suo andamento scolastico.

La vita di Eva si trasforma dalla mattina alla sera in un incubo perpetuo. Perde tutto. Il compagno di vita che aveva amato più di ogni altra cosa, la piccola Celia (compreso l’occhio di vetro che in seguito all’incidente era costretta a portare) e, sì, anche Kevin che sarà processato e rinchiuso in un riformatorio. A lei verrà per sempre tolto il diritto di vivere un attimo di felicità, di sognare una nuova vita, di accennare un sorriso mentre assorta nei suoi pensieri sta camminando per strada. Di chiedersi, come del resto fa per tutta la vita di Kevin, se è da imputare a lei quel ragazzino speciale. E fa male. Negare la vita a una donna fa male. Fa male vedere che il mondo ancora non ha capito che una donna mette al mondo una vita, un essere umano a sé e che le variabili intervenienti nella crescita e nelle decisioni prese da quell’essere umano possono essere infinite. E fa ancora più male vedere una donna ricca di cultura come Eva, ma anche tutte quelle donne che ricche di cultura non sono, piegate dal peso di una credenza primitiva e spietata secondo la quale se non sei in grado di entrare in contatto con la tua maternità non sei nulla, anzi, peggio, sei un mostro e un’aberrazione della natura. La colpa è solo di queste donne. Mariti, suoceri, parenti, amici sono tutti autorizzati a girare la testa dall’altra parte fino a quando non si verifica l’ennesima, evitabile tragedia e allora tutti in prima fila in chiesa con occhiali da sole e fazzolettino alla mano a compiangere i defunti.

Il Realismo Socialista è un movimento culturale nato nel 1934 nell’Unione Sovietica che con il passare del tempo si è esteso ai governi socialisti di centro ed est Europa. È indubbio che tale movimento puntasse all’omologazione degli stili artistici e che servisse al Partito Comunista come strumento propagandistico. Tra i temi ed esso cari vi erano la lotta di classe, la collaborazione fra classi contadine e classi operaie, la storia di quest’ultime e più semplicemente la quotidianità della classe lavoratrice. Alcuni hanno definito questo movimento discontinuo per il suo attingere al realismo ottocentesco e al pensiero di esteti sovietici. Il Realismo Socialista ha trovato posto nei musei ma ha anche arricchito e nobilitato palazzi pubblici, è stato presente nel cinema, nelle arti figurative e nella musica.

la difesa di pietrogradoC’è un punto dove Stati Uniti e Russia quasi si toccano, il punto in questione è lo Stretto di Bering dove ci sono le Isole Diomede. Una di queste isole è russa mentre l’altra rientra sotto legislazione statunitense. Sono al largo di Siberia e Alaska, fra di loro vi è una distanza di soli tre chilometri. Curiosità, l’isola americana è un giorno indietro rispetto a quella russa, questo perché sono divise dalla linea di cambio data. Ma c’è un altro punto dove Stati Uniti e Russia in questo caso si toccano. È un punto d’incontro fatto di cieco ottimismo, di una reiterata negazione delle realtà e di un’egoistica difesa delle proprie artificiali credenze e di obsoleti privilegi. Ma a subire il colpo più forte sarà proprio quel continuo processo di diniego della realtà, la quale non tarderà a mostrare il suo vero volto, complici Tempo e Storia. La difesa di Pietrogrado di Aleksandr Deineka (1934, nella foto qui sopra) non può fare a meno di ricordare proprio questo, che il sogno paterno anni cinquanta (alla Happy Days come asserisce Eva in una delle sue lettere) dell’americanissimo Franklin è destinato ad una rovinosa quanto violenta fine proprio come fu per il feudalesimo zarista e i suoi pantagruelici eccessi o, per restare in tema, come succede ad una ridicola bugia mantenuta tenacemente in vita per troppo, troppo tempo. Per un attimo il dubbio sorge quasi spontaneo e risulta quasi impossibile chiedersi se in quella macabra tavolata nel Nosferatu di Herzog non vi sia fra i commensali anche il nostro Franklin Plaskett.

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