Marco Ferrari
Una mostra a Palazzo Reale

L’altro Gruppo ’63 (quello del calcio)

Milano rende omaggio a due miti: Nereo Rocco e Helenio Herrera. Uomini dagli stili opposti, uno tradizionalista fino all'eccesso, l'altro creativo fino al paradosso. E l'anno in cui vinsero tutto fu quello che trasformò la città

Era la Milano della nebbia, di Enzo Jannacci e Giorgio Gaber, di Dario Fo e dei Gufi, delle canzoni della mala di Ornella Vanoni e dei romanzi noir di Giorgio Scerbanenco. Nel calcio era l’epoca della grande rivalità tra Milan e Inter, ai vertici mondiali per gli intuiti e le invenzioni di due allenatori, due persone opposte e diverse, Nereo Rocco e Helenio Herrera. Milano divenne capitale del calcio, smorzando le velleità del Benfica e del Real, vincendo quattro Coppe dei Campioni: 1963 e 1968 per il Milan, 1964 e 1965 per l’Inter. Il pallone era lo specchio della crescita industriale. Gli emigranti del sud diventavano nuovi supporter nelle fabbriche di periferia e nelle scuole di massa, nel traffico e nello smog, sui tram e nel metrò dove non si parlava altro che di Rivera e Mazzola, Corso e Altafini.

Quel clima è stato ricostruito nella mostra Quelli che… Milan Inter ‘ 63. La leggenda del Mago e del Paròn aperta sino all’8 settembre a Palazzo Reale di Milano, curata da Gigi Garanzini con una catalogo Skira a due copertine, una rossonera e l’altra nerazzurra.

Nelle immagini della metropoli del ’63, tra fabbriche e navigli, si contrappongono  due figure figlie di mondi differenti: l’asburgico Nereo Rocco e il tanguero Helerio Herrera. Rocco, classe 1912, in realtà si chiamava Rock (come la musica), costretto a cambiare cognome dal fascismo, figlio di un macellaio, più abile col dialetto veneto giuliano che con l’italiano, più adatto al vino e alla grappa che alle borracce d’acqua; Helenio, argentino, naturalizzato francese, nato ufficialmente nel 1916 e ufficiosamente nel 1910, poliglotta (parlava quattro lingue), don Giovanni impertinente, astemio e praticante di yoga, primo allenatore scientifico con velleità ascetiche per il gruppo, puntiglioso negli orari e nell’alimentazione. Così diversi, così lontani eppure vicini, nella stima reciproca. Capaci di diventare i primi trainer strapagati, personaggi nel campo e nel gossip, precursori di una professione che sarebbe poi diventa remunerata e allettante. Forse l’allenatore di oggi è un misto di quello che quei due ci lasciarono: la famosa lavagna tattica da viaggio di Helenio con le pedine magnetiche, i fogli ingialliti di Nereo con freccette e linee storte. Nella mostra milanese, poi compare la penna e la macchina da scrivere di Gianni Brera, il loro poetico cantore, anche se il giornalista propendeva per il triestino per ovvie ragioni enologiche. Anche Celentano si cimentò in una strampalata intervista alla strana coppia, a suo modo, dopo il derby del 1968.

Esattamente cinquant’anni fa, a Wembley il Paròn elevava al cielo la Coppa dei Campioni, la prima del calcio italico. Più o meno gli stessi giorni l’Inter del Mago Helenio vestiva lo scudetto. L’ostentata rivalità tra i due era in realtà finta. Giocava a illuminare i loro comprimari. La contrapposizione Mazzola e Rivera durò a lungo, come quella tra il rude Maldini, che il Paròn si era portato da Trieste e il corposo Facchetti, quella tra il “sinistro” Corso (anche in senso politico) e l’oriundo Altafini.   Esigenze di copione lo imponevano in tempi di scoperta del mezzo televisivo come il dualismo politico tra Dc e Pci, quello economico tra Nord e Sud, dolciario tra Motta e Alemagna, quello ciclistico tra Nencini e Battistini, quello canoro tra Mina e Milva. Tra rivalità e amicizia, il Paròn e il Mago per tutti i fatidici anni sessanta costruiranno la fortuna di Milano e la loro personale. Rocco era nel mondo del pallone dall’età di sedici anni quando esordì in serie A con la Triestina. Da allenatore esplose alla grande vincendo nel 1961 il suo primo scudetto milanista e due anni dopo trionfando in Champions. Con i giocatori alternava burberi rimproveri paterni a rimbrotti da sergente di ferro. Fulminava tutti con battute feroci che resteranno alla storia. La sua teoria di fondo era questa: tu mira all’avversario, se colpisci la palla è meglio, altrimenti è lo stesso.

Herrera diventò Mago quando infilzò le vittorie consecutive con l’Inter nel 1963, 1964 e 1965 in Europa e nel mondo. Herrera dava del lei ai giocatori, li trattava con i guanti, faceva il baciamano alle mogli degli atleti, rilasciava invertiste ai giornali di tutto il mondo, conduceva una vita ritirata, anche nelle alcove amorose. Guardava se stesso e si ammirava, come un torero, come un ballerino di tango. Era vittima di una stramba migrazione alla rovescia che dall’Argentina lo collocò in Marocco, per passare poi in Francia e quindi da allenatore in Spagna e Italia. Ma non aveva alcun eccesso di trionfo nel suo modo di gustare il successo, calcolato, meditato, sofferto. Da povero era diventato ricco e non voleva sciupare l’incantesimo. Nereo, invece, anche a Milano rimase vittima del suo destino d’osteria. Allenava con la buzza gonfia, mangiava e beveva a dismisura, rimase fedele alla moglie, una donna all’antica, la “siora Maria”. Aveva i capelli con la brillantina e le mani gli puzzavano di olio di canfora. Quando il grande De Chirico gli regalò un quadro per consolarlo di una sconfitta finse di capirne il significato. Era un attore nato. Federico Fellini nel 1973 gli propose di recitare in Amarcord. Si incontrano in un ristorante di Bologna, pranzarono a tortelli e lambrusco. Rocco doveva fare il padre di Titta. Ci pensò poi, quando i suoi giocatori lo presero in giro, cambiò idea. “No, grassie sior Fellini” disse pensando agli impegni del Milan in coppa e campionato. Là nelle nebbia c’era sempre un’osteria ad attenderlo, un grumo di buon umore che faceva dimenticare i meccanismi stritolanti di quella che era “La vita agra”, come la chiamava Luciano Bianciardi.

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