L’inchino
Illustrazione di Marina Bindella
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Ero bravissimo a fare il baciamano, fin da bambino. Durante le feste, ai matrimoni e ai battesimi, la pace del mio angolo, costruito sotto la tovaglia lunga, in cui portavo confetti e pezzi di dolce, veniva normalmente rovinata da un adulto della mia famiglia, che mi prendeva sotto le ascelle e mi portava a piè pari sul tavolino.
«Coraggio, fai il baciamano alla maestra» – era il comando.
E io eseguivo, proprio perché di coraggio non ne avevo. Eseguivo come un pinguino di cinque anni, il gozzo pieno di cose dolci e buone, ma in fondo acide, per via del lievito, sempre troppo. Un pinguino grasso, pronto a eseguire gli ordini che odiavo. Mi piegavo in avanti, ad angolo retto, intanto prendevo nella mia mano la mano che mi porgevano quelle donne così profumate e sorridenti, e senza nemmeno sollevare gli occhi su quei volti incipriati, stupiti, lusingati, abbassavo la mia boccuccia sul loro dorso e alitavo. Mio nonno, da bravo ufficiale, mi aveva ben insegnato che le mani alle donne non si toccano con le labbra – perché è meschinità, maleducazione, affronto – ma che si deve soltanto dare questa impressione. Si deve far provare il brivido, andare vicino ma non farlo, solo far capire che il contatto potrebbe esserci. Fare una promessa, insomma, e non mantenerla. Perché è questo che piace alle donne, sissignore. Il baciamano dunque era il prezzo per la mia golosità. Pagarlo mi sembrava equo. Dopo, potevo tornare sotto al tavolino, a ingozzarmi. E da lì in poi, le chiacchiere dei grandi mi arrivavano sempre più attutite, fin quando non mi addormentavo. Allora due braccia sconosciute mi portavano a letto e al mio risveglio la casa era piena di sole, le stanze erano state ripulite, della festa non c’era più traccia.
Sinceramente non capisco adesso tutto questo vociare. Le urla si mischiano. Quelle di notte, in mezzo al mare, tre anni fa. Quelle di giorno, dalla televisione, dal telefono, dai giornali, durante il tempo intercorso da allora. Questa gente, sinceramente, non so cosa voglia da me. Chi sono questi che si agitano tanto? Io ho solo fatto quello che so fare meglio. Mi sono avvicinato, senza avere l’intenzione di toccare. Tutto doveva filare via, andare. Andare liscio, come sempre. Sotto gli occhi increduli dei miei benefattori, dei miei protettori, dei procacciatori di gioie e dolciumi, avrei eseguito il mio numero. Avrei quindi ricevuto i miei applausi, i complimenti. Poi mi sarei risvegliato al fianco di una bella donna dal profumo dolce, nel mio letto immacolato. Certo di avere avuto in cambio tutto quel ben di dio solo grazie a un piccolo movimento del timone, certo audace, ma poi non così pericoloso. Qualcosa che avevo ripetuto più e più volte. Praticamente, nella vita non avevo fatto altro. Andare vicino, sfiorare. Come una promessa da non mantenere. Non mi aveva avvisato, mio nonno, che si può inciampare. E che dopo è quasi impossibile riprendersi, perché un piccolo inciampo può mandare tutto per aria, quando in un istante ti devi giocare la vita e di quella non te ne intendi. Non sai fare altro che sfiorare le cose ma a volte le misure non sono quelle giuste. Quelle che credevi.
E così, d’un balzo, non ho più cinque anni ma cinquanta, e sono un uomo strappato via da sotto alla sua bella tavola di capitano a cui le signore facevano a gare a venire ogni sera, per farsi fare l’inchino.
Sul mare nero, questo sangue di seppia che ho finto di amare ma che odio da sempre perché non ho una goccia del suo coraggio e temo la sua solitudine, ho visto persone che si accalcavano per un posto sulla scialuppa e alcune che già nuotavano e che si buttavano giù nell’acqua fredda. Era una cosa senza senso. Una cosa che non credevo fosse possibile. Volevo tornare sotto al mio tavolo, quello che dovevo fare lo avevo fatto, mi ero inchinato, cosa mai potevano volere quelli da me.
Quella nave bianca che stava affondando, con la pancia aperta da un sasso, non rientrava nei piani che avevo fatto per la mia vita. Perciò, semplicemente, non mi riguardava.
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Roberta Lepri è nata a Città di Castello (Perugia), si è laureata in Lettere moderne all’Università di Siena con una tesi su Michelangelo. Vincitrice di numerosi premi letterari, ha pubblicato i romanzi Sulla terra, a caso (ExCogita, 2003), L’Ordine inverso di Ilaria (Guida, 2005, vincitore della X edizione del Premio Cimitile), L’Amore riflesso (Guida, 2006). Con Avagliano editore ha pubblicato La ballata della Mama Nera (2010), Il volto oscuro della perfezione (2011) e Io ero l’Africa (2013).
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Marina Bindella vive e lavora a Roma. Con la prima mostra personale del 1980 inizia il suo percorso artistico che, negli anni seguenti, si esprime attraverso diversi linguaggi grafici e pittorici. Dal 1991 collabora con varie private presses, realizzando numerosi libri d’arte. Nel 2009 L’Istituto Nazionale per la Grafica acquisisce 16 suoi lavori su carta. Ha partecipato alle più importanti rassegne internazionali di grafica e di arte contemporanea, ottenendo vari premi e riconoscimenti. Dal 1994 insegna Storia dell’Arte e della Grafica e Libro Illustrato nelle Accademie di Belle Arti e tiene corsi di perfezionamento in xilografia in Italia e all’estero.www.marinabindella.com