La terra che balla
Illustrazione di Licinia Mirabelli
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Non posso più farlo questo lavoro.
Tutti i giorni, alle sei del mattino, guardo con occhi già stanchi questo cancello aprirsi e poi richiudersi alle mie spalle, con quel rumore metallico che cigola nelle orecchie e puzza di grasso stantio.
Odio gli anfibi. Mi pesano soprattutto quando cammino sulle grate sottili che separano quegli uffici sordi dalle celle che vomitano lamenti.
E la terra già mi balla sotto i piedi.
Mi manca l’aria e la cerco sotto la cupola di plastica senza luce, che prende sole e pioggia al posto mio.
I giorni sempre uguali, una monotonia costante, accompagnata da questa cazzo di ansia che mi toglie il respiro. La sveglia alle cinque, il caffè preparato nella macchinetta vecchia, il rumore del camion della spazzatura che parte, lasciando silenzio e tanfo nell’aria umida. Il lavandino pieno dei capelli neri di mia figlia. Se ne sbatte del fatto che non abbiamo la cameriera che li tolga da lì e li getti nel water. E se la prende con me.
“Se ti sapevi tenere papà, se lui restava, i soldi per pagare la donna li avremmo avuti” dice sempre.
E già, è vero! Ma lei non capisce che, a quest’ora, sarei stata dentro insieme alle altre detenute, anziché fuori a tenerle chiuse in gabbia co’ ‘ste chiavi in mano. Perché io l’avrei ucciso, suo padre.
Lei ancora non lo sa che qua fuori ci sono catene più tenaci e dolorose. C’è un mare, quello che le carcerate non possono vedere, che non lava niente e che non si porta via il male.
Il primo schiaffo che mi beccai da Pietro, non se lo può ricordare, perché la tenevo in pancia. E il secondo neanche, perché me lo diede fuori casa. Fu quello che mi fece rotolare giù, per tutte le scale. Il terzo… il terzo no, non fu uno schiaffo, ma un massacrare di calci e pugni senza pietà. E non lo denunciai, nonostante la divisa che porto addosso. Non lo feci, non per vigliaccheria, bensì per la rabbia e l’odio atroci nella mia testa, che suggerivano: ammazzalo… ammazzalo!
E l’avrei ammazzato, di certo, senza pietà, con gusto, l’avrei fatto ridendo! Ma lui se ne scappò e non è più tornato.
E mo’, mia figlia, dà la colpa a me.
La divisa mi punge addosso d’inverno, e s’azzecca d’estate. Non la voglio sulla pelle, mi dà fastidio, e la parola “guardia carceraria”, poi, mi fa rabbrividire. Mi sento gli occhi delle detenute sempre addosso. Sono io prigioniera di quelle fessure acide che mi osservano di taglio, dalle sbarre, e si incollano alle spalle anche in parlatorio, in quella stanza colore pesca che sa di vecchio e disinfettanti.
Dovrei stare dall’altra parte dei cancelli, perché sono una killer bianca, un’assassina dentro, una di quelle vere, che ucciderebbe con divertimento.
L’altro giorno hanno chiuso una che aveva negli occhi il mio stesso tormento. L’ho riconosciuto, quel sentimento, per me è lampante, non si può nascondere dietro la pietà. Il marito l’aveva massacrata di botte, per anni. Ne portava ancora i segni, sotto lo sguardo cupo, dentro le labbra rosse, dietro quella faccia di foglia accartocciata. L’ultima volta l’aveva accoltellata dentro le scapole, per farla morire. E lei se n’è stata zitta. Ha detto che l’avevano aggredita, così come avevo fatto io con Pietro. Viva per miracolo, appena è stata bene è andata a Scampia, da un tizio che sta dentro un buco, ‘na saittella. S’è comprata una pistola, l’ha aspettato sotto al palazzo e gli ha sparato. Ed è rimasta là, seduta sul marciapiede, ad aspettare che la polizia arrivasse.
Ieri, in quella gabbia sporca di lacrime e panni appesi alla rinfusa, su di un filo che taglia a metà il tanfo, l’ho guardata e l’ho invidiata. Lei ha ucciso e io ancora no. “E’ come me, è una mia pari, ha la stessa miafollia” ho pensato.
Allora, mentre la chiudevo in cella, di sfuggita, a testa bassa, così, come per caso, a mezza voce le ho chiesto: “perché l’hai fatto?”
Lei s’è avvicinata alla sbarra, ha messo la sua mano sulla mia per un attimo di carnalità. Mi ha guardata dritto in faccia e mi ha risposto toccandosi la pancia: “per salvare lei. Me l’avrebbe uccisa. Mo’, qua dentro, sto tranquilla”.
Mi sono allontanata in fretta e furia, un piede avanti all’altro, il sangue che ribolliva. Chi è la carcerata tra noi due? Lei ha ucciso per salvarsi e per salvare ancora. Io avrei ucciso per il gusto di farlo, perché sono più cattiva.
Io non tengo rimorsi, coscienza, leggi.
Io sono instabile come ‘sta terra. ‘Sta terra che mi balla sotto i piedi.
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Maria Rosaria Selo è nata a Napoli nel 1961. Nel 1995 ha partecipato al concorso letterario Mondadori “Donna Moderna” con il romanzo Il lato sinistro del cuore, piazzandosi tra i primi venti selezionati. Ha collaborato con Atanasio Mozzillo per il volume storico I viaggiatori del 700 a Napoli. Nel 2000 ha collaborato come dialoghista ad alcune puntate di Un posto al sole. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo Io sono dolore (Kairòs Edizioni).
Licinia Mirabelli è nata a Roma nel 1970. Si è diplomata in Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Dal 1999 al 2006 ha diretto la Galleria civica d’arte contemporanea di Ciampino e ha partecipato a numerose mostre personali e collettive. Il suo lavoro parte da una matrice informale per poi giungere, negli ultimi anni, a una figurazione di natura lirica e intimista. Ha partecipato alla 54a Biennale di Venezia nel 2011.