Rita Pacifici
Ultimi giorni per la mostra del Vittoriano

Il “viatico” Cézanne

Soffici, Morandi, Carrà, Casorati, Carena, Cagli, Gentilini, Rosai, Severini, Sironi, Boccioni… Così la pittura italiana ha dialogato col maestro di Aix, usandolo come punto di partenza verso l'arte europea

«Pazzo e primitivo, come Jacopone da Todi e Giotto», così Paul Cézanne faceva il suo ingresso in Italia, presentato da Ardengo Soffici sulla rivista Lacerba. Era il 1908, l’artista francese era scomparso da due anni, una grande retrospettiva a Parigi aveva tributato un tardivo omaggio alla rivoluzione pittorica e filosofica portata avanti con ostinazione dal pittore di Aix en Provence, nonostante la solitudine e l’ostracismo, i rifiuti e la derisione che avevano accompagnato la sua ricerca sin dagli esordi. In Europa guardavano a lui le menti più avanzate: Picasso si ispirava alle sue figure nude immerse nel paesaggio per realizzare Les demoiselle d’Avignon, manifesto del cubismo, Rainer Maria Rilke osservava la straordinaria resa pittorica delle nature morte e faceva iniziare la modernità proprio dalla nuova, acuta, percezione del reale espressa in una poetica che si era avviata dall’impressionismo per poi lasciarsi alle spalle ogni esperienza nota e addentrarsi verso una dimensione ancora oscura, ancora non pienamente visibile. Con quella formula un po’ aspra, Soffici sottolineava il temperamento schivo e ombroso del maestro francese, e la speciale qualità di una pittura densa, materica, che non perdeva di vista la geometria, e sembrava andare avanti guardando indietro, verso la tradizione e gli antichi maestri italiani.

MorandiIn realtà Cézanne non era mai stato in Italia, né aveva legami con il nostro paese, anche se per molto tempo si è voluto vedere nel suo nome la trascrizione della località piemontese di Cesana. Il rigore compositivo che guidava la sua arte e la preservava dall’indistinto, dalla nebulosità dell’impressione visiva, si era alimentato non attraverso i paesaggi del Grand Tour e le tappe obbligate di Venezia, Firenze e Roma ma in quel mirabile compendio dell’arte universale racchiuso nel Louvre, e nel piccolo ma prezioso museo di Aix, dove Cézanne aveva appreso e amato il colore dei veneziani, di Tintoretto e Veronese soprattutto, e la pittura del passato gli aveva aperto un varco verso il mondo classico. Leggeva, meditava Virgilio, si alimentava alla sorgente sempre viva del pensiero antico. Secondo la definizione di Paul Gauguin era anzi lui stesso un «pittore virgiliano»: «I suoi orizzonti sono elevati, i suoi azzurri intensissimi e il rosso dei suoi dipinti rivela una vibrazione stupefacente». Così, appartato, intriso di un sottile arcaismo, Cézanne portava avanti la propria battaglia contro la vecchia cultura, senza confondersi con gli altri artisti attivi sulla scena parigina, senza mai smettere di credere in una verità nascosta nel visibile, in qualcosa di duraturo che era compito della pittura snidare, non smettere mai di cercare sotto l’incessante variazione dell’atmosfera, senza ascoltare il canto seducente dell’attimo che muta, il richiamo ingannevole delle sirene che spingevano al naufragio della forma e della struttura.

È questa tensione tra presente e passato su cui si costruisce l’avventura pittorica di Cézanne, questo ruolo di ponte tra due tempi, ad attrarre gli artisti italiani che, nei primi decenni del Novecento, dopo gli sperimentalismi delle avanguardie, si trovano a fare i conti con la necessità di un profondo rinnovamento, per ripartire verso il futuro senza tradire la propria storia. Cézanne, dunque, come “viatico” verso la grande arte europea, tema attorno al quale è costruita la mostra Cézanne e l’Italia, curata da Maria Teresa Benedetti, che a Roma, al Complesso del Vittoriano (fino al 2 febbraio) raccoglie circa cento opere, tra le quali venti capolavori del maestro francese, per mettere a fuoco come la sua eredità si dipani evidente, forte e a lungo nel Novecento italiano. Oltre allo stesso Soffici, tra i primi a guardare verso il maestro di Aix è Giorgio Morandi. Colpito dai paesaggi, che sembra persino trascrivere fedelmente in alcuni dettagli sin dal 1911, il pittore bolognese procederà poi nella stessa direzione di Cézanne, privilegiando la natura morta come strumento per discendere nel segreto delle cose, come si vede, in particolare, nell’olio eseguito da Morandi nel 1919, fitto di motivi rivelatori dell’affinità elettiva che lega i due pittori.

SironiIn cinquant’anni di attività, l’artista che aveva dichiarato di voler stupire Parigi con una mela, ha lasciato oltre trecento dipinti, tra oli e acquarelli, dove protagonisti sono gli oggetti con la loro vita silenziosa, e l’eco delle sue composizioni, solide e serrate, qui esemplificate dai capolavori Frutta e Il buffet provenienti da San Pietroburgo e da Budapest, percorre anche le essenziali Uova sul cassettone di Felice Casorati, i nitidissimi Limoni di Antonio Donghi o le più ricche nature morte di Francesco Trombadori, conquistato dalla tavolozza scura, dal nero così sapientemente valorizzato dal maestro francese e quelle di Giuseppe Capogrossi. Alla magistrale lezione dei paesaggi offerta dal pittore francese, evidente in La strada in salita, Rocce all’Estaque, Interno di foresta, dove si materializza il sentimento di una natura avvertita come eterna, unica, ultima maestra di ogni vero artista, si riporta direttamente Carlo Carrà con una serie di intense vedute, di luoghi filtrati attraverso lo sguardo fermo del mito, mentre il ricordo delle numerose Bagnanti, altro soggetto centrale nell’opera di Cézanne, è evocato nei ritmi del sofisticato Concerto di Casorati, in Serenità di Felice Carena, nei nudi maschili di Franco Gentilini e in quelli di Corrado Cagli, nelle figure ormai ridotte a fregi che si ritrovano in Bagnanti di schiena e Bagnanti di rifrazione di Fausto Pirandello, costantemente alimentato dall’immaginario del maestro francese, attraverso il quale ci si inoltra nel secondo Novecento.

Nel percorso espositivo intercettano l’universo pittorico di Cézanne, con modalità e risultati diversi, anche i paesaggi di Ottone Rosai, le donne immobili di Mario Sironi, i bei volti di Gino Severini e di Roberto Melli, ma esemplare per comprendere quanto sia ramificata la penetrazione del messaggio cézanniano in Italia, è il caso di Umberto Boccioni, irriducibile futurista, ideologo della velocità e del dinamismo quali strumenti necessari per sciogliere l’arte dai lacci della tradizione. Esaurita la spinta avanguardista, alle soglie del primo conflitto mondiale, anche Boccioni riflette sui risultati raggiunti dal pittore di Aix, guarda ai magnifici ritratti, a quelle presenze colte sinteticamente senza mai tradire il reale e il suo mistero, a quella tecnica che si farà via via sempre più audace, fino a scomporsi, a sfaldarsi nel colore, avanzando verso le soluzioni che saranno proprie del cubismo. È lo stile delle opere composte tra il 1905 e il 1906, anni a cui risalgono Paesaggio blu, Il monte Cengle, Il giardiniere Vallier, che sembrano animare un nucleo di dipinti realizzati da Boccioni poco prima di morire nell’agosto del 1916: Silvia (sintesi plastica di figura seduta), Ritratto della Signora Cragnolini Fanna, Natura morta di terraglie, posate e frutti, Ritratto del Maestro Busoni. Dipinti dove l’ultimo Cézanne si riversa nell’ultimo Boccioni attraverso una fitta corrispondenza di blu, di verdi, di ocra, che sono tra le espressioni più alte di questo dialogo dell’arte italiana con il maestro francese.

 

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