Il trucco
Illustrazione di Mauro Maugliani
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La snervante civetteria di mia sorella, fin da quando eravamo bambine: lei, più grande di otto anni, già con i rilievi scandalosi e tronfi sotto le magliette, le gambe da lepre, la mascella un po’ spigolosa e il sorriso apparente. “Fammi bella!”, ordinava sedendosi vicino alla finestra del bagno e schiaffandomi fra le mani la busta a fiori del trucco. E io lì, fra la resa e l’ammirazione, pronta a obbedire.
Detestavo quel suo stare a occhi chiusi con le palpebre che si raggricciavano al mio tocco, perché increspava la linea che avrei voluto disegnare in un sol colpo, alé, una precisa e rapida svirgolata color visone –com’era scritto in oro sulla matita- per passare poi subito al rossetto di un serico albicocca e non dover subire troppo a lungo la visione delle sue labbra sottili, protese, e a volte umide; e sopportare il pizzicore dei suoi capelli folti e volatili, e il suo respiro tiepido e cadenzato sul mio polso che mi dava un po’ nausea, un po’ i brividi, un po’ la rabbia.
Le sue giacche avvitate. Le gonne soprattutto, e rarissimamente i pantaloni, per incedere senza spruzzate di profumo fra stanze, pianerottolo, strada, autobus, macchina, negozi, cinema, catechismi e poi, più avanti, aule di università. Quel trillare della sua risata orgogliosa e implacabile. E mai una lacrima: perché non sta bene.
La smania di cantare cucinando o mentre ricopiava appunti da un quaderno all’altro, ma più che altro nei momenti di desolazione e soprusi: canzoni e arie di opera mugolate e modulate tenendo il collo un po’ reclinato, per poi passare ai motivi in voga di cui non ha mai voluto imparare le parole giuste, soprattutto quelle in inglese. Altra rabbia.
E poi le confidenze non richieste, nell’intimità collosa del crepuscolo senza termosifoni: quelle storie di mancate attenzioni prima e di tradimenti coniugali poi; della spilorceria di mio cognato, e poi di questo e poi di quello, a bassa voce e senza guardarmi in viso, in un flusso di aneddoti sconnessi e spesso inauditi; ma inutile chiedere a cosa le valesse sopportare: le domande erano state messe al bando dalla sua regola aurea del decoro e del far fronte.
Fare fronte. Shh!, e avanti!, come lo scorso anno nel labirinto dei reparti del Policlinico con le pareti dipinte a olio di un inquietante verde speranza, per poi sedersi vicine io e lei su sedie di plastica addossate al muro, sfogliando riviste stropicciate e bisunte con attrici botoxate, spiagge tropicali e ricette per i pic-nic di primavera. Lei con la sua arrogante parrucca fulva e laccata da cui sfuggivano volatili ciocche di incoraggiante ricrescita, dopo la chemio; e io ciondoloni lì, a tribolare per lei come se toccasse a me, ingoiando boccate d’ansia e invidia per quel suo riuscire a intavolare conversazione con gli altri sopravvissuti, tutti in complice e rassegnata attesa del bombardamento di radioterapia.
Quella sua tempra da portatrice d’acqua nel deserto. Quello sguardo calcolatore e un po’ rapace, bizzarramente mischiato a un cinguettante affidamento alla natura, alle gocce di resina, ai sassi di pietra lavica, al vento estivo, ai cuccioli di ogni specie, eccetera eccetera eccetera.
Quando sono arrivata a casa sua, stamani, erano le undici. Se avesse potuto rimproverarmi, l’avrebbe fatto già rispondendomi al citofono –come accadeva spesso- con tono aspro e frettoloso: perché ieri l’altro pomeriggio mi aveva detto di sentirsi poco bene e di andare da lei, ma subito!, anche se mi trovavo nel bel mezzo di una riunione. E come mi ero sentita vincente rispondendo, per una volta: eh no cara, io mica posso, stavolta chiami tuo marito.
Quel marito traditore se ne sta ora curvo al centro del divano color muschio, con una corona di parenti e amici stretti attorno, a bisbigliare, annuire, scuotere la testa e chiedere dettagli. Lui piange mentre mi abbraccia; io no. Lui è restato a vegliare il suo corpo anche se non vivevano più assieme da dieci anni; io no.
La porta della camera di mia sorella è chiusa.
Una cugina a cui facevamo i dispetti nei pranzi di Natale mi dice che non è il momento di entrare, perché sono arrivati da poco quelli del servizio funebre, per sistemarla.
Ma io non le dò retta.
Mia sorella è sempre stata freddolosa: uno spiffero, e subito s’infilava uno dei suoi golf abbottonati, starnutendo. Adesso, nonostante sia metà gennaio, la finestra è spalancata e la tramontana solleva la tenda facendola sbattere contro la scrivania con tonfi da vela.
Quando entro, lei è stesa nuda a braccia aperte sul letto, scalza e con addosso solo un castigato slip di pizzo beige con dei fili che sbucano dalle cuciture. Al di là del suo corpo, ci sono due uomini con i capelli lunghi sopra e rasati sotto come vuole la moda, dozzinali abiti neri e cravatta grigia. Uno sta sbaraccando barattoli, spugnette, pennelloni e ciprie dalla scrivania con la scimmia di legno che lei comprò a un mercatino africano. E l’altro brandisce la protesi al silicone con cui, almeno da vestita, lei cercava di far credere che il seno destro non le fosse stato piallato via dal tumore mutilante. Loro, ridono. Ridono allegramente proprio mentre io entro nella stanza; e per quanto non dicano una parola, hanno l’ aria ammiccante e goliardica di due compagni di scuola nella pausa della ricreazione.
Appena mi vedono quello che armeggia con gli orrendi cosmetici e che ha una faccia stretta e lunga, arrossisce, soprattutto alle orecchie. L’altro posa al volo la protesi sul comodino, accanto al libro di Alice Munro letto fino a metà; e intanto mormora un saluto grave, una frase di circostanza e qualche parola con puntini di sospensione.
Mia sorella pare una dormiente severa, con i pomelli troppo rosa e il resto del viso fra il grigio e l’arancio. I capelli, che amava arricciare e gonfiare in onde disordinate, sono divisi da una impeccabile scriminatura e schiacciati umilmente contro le guance.
«L’ avete già truccata e pettinata».
«Sì. Ma se non va bene…».
«Fa ridere: dunque non va bene». Orecchie rosse guarda il collega con lievissimo strazio –quel tanto che può restare sotto il callo di un annoso e obbligatorio cinismo. Ma l’altro si stringe nelle spalle con noncurante sopportazione, tipo: sai quante ne ho viste e sentite io, di scene così.
«Potete andarvene», dico.
Annuiscono con altri mormorii. Quello più scafato dice: condoglianze. Poi se ne vanno. Chiudono la porta e restiamo soltanto io, mia sorella, il vento, e le tende, flap, flap.
Però io mica ce la faccio a vestirla, no. Più tardi, qualcuno di certo riuscirà a sistemarla dentro il tailleur color ruggine che comprammo assieme ai saldi. Io riesco solo a sistemare nel reggiseno la protesi che faceva sghignazzare quei due, appoggiando poi coppe e spalline sul suo torace mutilato in modo da non mostrare più la conca vuota e la cicatrice cremisi che va dalla clavicola all’ascella. Dopo di che prendo un plaid, e la copro fino al collo.
Mi metto a sedere accanto a lei. Le sfioro i capelli: e scopro, allora, che quei capelli persi per la malattia e poi ricresciuti folti e volatili come prima, sono la sola cosa di lei che non è cambiata, che non è diventata fredda, pallida, rigida. Allora glieli scompiglio: li aggiusto, li faccio svolazzare, li districo, me li inanello attorno alle dita.
Poi ci affondo il viso dentro. Mi ci rintano. Mi stringo a lei, guancia a guancia, m’impiastriccio anch’io di quel ridicolo rosa e arancio che le hanno messo, chiudo gli occhi, e penso: pietà, pietà, pietà.
* * *
Chiara Tozzi, scrittrice, sceneggiatrice e docente di Sceneggiatura, affianca a scrittura e docenza l’attività clinica di Psicologa Analista. È autrice di storie e sceneggiature per cinema, teatro, radio e televisione. Docente di Sceneggiatura e Psicologia, ha tenuto corsi presso l’Università di Roma e Firenze, il Centro Sperimentale di Cinematografia,La Scuola Holden, l’A.I.P.A ed altre scuole italiane. Membro ordinario di A.I.P.A (Associazione Italiana Psicologia Analitica) e I.A.A.P (International Association for Analytical Psychology), è Presidente dell’Associazione “IMAGHIA-Consulenza Psicologico Creativa per Cinema e Televisione” e del “Premio IMAGHIA ai film che fanno bene”. Ha pubblicato le raccolte di racconti Tanti posti vuoti (Aktìs Ed.1994),L’amore di chiunque (Baldini & Castoldi Ed.1997) e Condividere (Ila-Palma Ed. 2005), il saggio Il paziente sceneggiatore (Gaffi 2007), e il romanzo Quasi una vita (Feltrinelli Ed. 2008).
Mauro Maugliani ha studiato decorazione Pittorica all’Accademia dei Belle Arti di Roma con Cegna. Partecipa a numerosi Premi con riconoscimenti (Giffoni per l’Arte, Premio Fabbri) e acquisizioni nelle collezioni permanenti (Palazzo Collicola Arti Visive, Premio Michetti). Tra le esposizioni personali si ricordano Palazzo Valentini a Roma (2007), Palazzo Collicola Arti Visive di Spoleto (2013), l’intervento site specific al Maam di Roma (2014), le ultime a Vienna (2015), alla Pinacoteca G. da Gaeta (2015), e Antibes (2015), e la partecipazione ad Expo Arte Contemporanea (2015). Hanno scritto di lui, tra gli altri: Gianluca Marziani, Alessia Carlino, Vittorio Sgarbi, Carl Aigner, Giorgio De Finis, Giorgia Calò, Adriana Soldini, Alberto Agazzani, Marcello Pezza, Edoardo Sassi.