Silvio Perrella

Il giorno che non ricordo

Illustrazione di Aurelio Bulzatti

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Adesso che ci penso di quel giorno non so nulla; soprattutto non saprei situarlo con esattezza sul calendario. L’anno, sì, quello direi che doveva essere il 1970. O invece era il 1969?

Ho scritto: “Adesso che ci penso”. E’ inesatto, perché non so se ho davvero cominciato a pensarci.

Pensare al giorno in cui sono stato costretto a lasciare la mia città natale no, non è facile.  Dieci anni: dalla mia nascita a quel giorno era passato un decennio. Gli anni Sessanta.

Pensare per decenni è una convenzione che a volte ho adottato. L’ho usata, ad esempio, per il mio primo libro, che racconta i cinque decenni di creatività calviniana, uno per ogni capitolo.

Ancora, sono dieci anni che abito nella casa nella quale abito. Anniversari: ho un certo talento per gli anniversari. Forse ho dovuto svilupparlo.

Ecco: c’è una quantità di tempo da sistemare in qualche modo; c’è bisogno di un contenitore nel quale metterlo; lo cerco e lo uso; lo faccio per fare ordine; lo faccio perché le cose a ripensarle a volte ti dicono per la prima volta cosa sono realmente state.

La mia città natale si chiama Palermo. Si trova a Sud, in fondo in fondo alla Nazione. Sono nato laggiù. E ci ho vissuto per circa dieci anni. Poi è stato un continuo peregrinare. E poi ho deciso di vivere in un’altra città.

Quest’ultima città si chiama Napoli. Sarebbe tutto. Tutto quel che so dire senz’affanno. E’ così, no?

palazzi di periferia aurelio bulzattiPerò, adesso che ci penso, o adesso che comincio a farlo o provo a farlo o mi arrabbatto con le parole; però adesso mi accorgo che di quel giorno non so nulla.

Oddìo, fu un giorno di distacco e di lutto e di smarrimento. Se ti levano una città è come se ti levassero un corpo. Le gambe, le braccia, un cuore e due polmoni e anche il fiato che c’è dentro: all’improvviso non li hai più.

Ma perché dico “all’improvviso”. Non sapevo che ci saremmo dovuti trasferire altrove, in famiglia non se parlava da tempo? Di sicuro è così, però queste cose quando accadono, accadono sempre all’improvviso. Come la morte altrui.

Ci avevo vissuto a Palermo come si vive nella marmellata. Ne succhiavo il sapore, senza sapere che si trattasse di un buon sapore. Era l’unico gusto urbano che conoscessi sino a quel momento.

Devo dire che il nomadismo impostoci da mio padre (quel nomadismo che in seguito mi ha fatto  un viaggiatore, sia pure sui generis) si era già manifestato all’interno della stessa città con ben tre trasferimenti. Che significa tre case.

Due erano vicine: una prima di un ponte; l’altra dopo. Non un granché di ponte, ma sempre un ponte con qualcosa che ci passa sotto e con due lembi urbani da lui congiunti. La prima casa se ne stava alla fine di una strada diritta e piuttosto popolare, un po’ periferia un po’ chissà cos’altro.

La seconda, invece, era quasi all’uscita dalla città. Qualche palazzo già esistente e tanti altri in via di esecuzione. E anche quelli che ancora non erano stati progettati erano lì come un prurito dell’asfalto e del cemento.  Un quartiere, lì sarebbe sorto un altro quartiere della città: così, quasi senza saperlo: palazzi alti alti, terrazzi gli uni sugli altri, girati di qua, girati di là, ignari di ogni pur minima idea dell’insieme.

Però lì a un passo c’era l’edificio di una scuola, nato per essere tale e non adibito in seguito ad ospitare gli alunni. E quell’edificio  ospitò anche i miei primi timidissimi e miopi approcci al leggere e allo scrivere.

La terza casa era lontana da lì, dalla parte opposta della città. Era una casa quasi a pianterreno, tecnicamente si direbbe “un piano rialzato”. Aveva un grande terrazzo tutt’intorno e giù a livello della strada un giardino. Di fronte sorgeva l’edifico che ospita un carcere  minorile.

Anche in questo caso la città non era ancora stata disegnata del tutto. C’erano pezzi di campagna e gli scavi dai quali si sarebbero eretti alti palazzoni, da noi ragazzi  nel frattempo trasformati in campetti per giocarci a calcio.

Tre case in dieci anni, dunque. Segno di dinamismo, segno di un’accresciuta caratura sociale? Non erano quelli gli anni del boom economico? Ma va detto che mio padre a Palermo non c’era nato; lì ci si era trovato quasi per caso e da straniero la viveva, da straniero che si era accasato con una siciliana.

Non aveva radici e non avendo radici poteva spostarsi da qui a lì con maggiore agilità o con minor dolore. A volte mi viene da chiedermi come siano fatte le radici di chi è nato in un luogo e ci ha vissuto tutta la vita. Ci penso quando estirpo le erbacce da un vaso e mi porto al naso le filiformi radici e ne annuso l’odore, un profumo che sfugge alle definizioni, che sa di terra ma anche di chiuso, che sa di patate e di muffa.

Quel giorno di cui non mi ricordo la dinamica; quel giorno in cui lasciai Palermo furono sfilate via dalla pianta urbana in cui ero stato messo a dimora le mie radici. Che odore avessero davvero non so dire. Ma presumo che odorassero come tutte le altre radici, simili a quelle delle erbacce che l’altra mattina ho tirato via dai vasi sul terrazzo che si sporge alto sul Golfo di Napoli.

Adesso che ci penso di quel giorno non ricordo nulla, anche se quel giorno ha segnato tutta la mia vita futura. In bene e in male.

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silvio perrella2Silvio Perrella, nato a Palermo nel 1959 ma napoletano da sempre, è uno critici più brillanti della sua generazione. Ha pubblicato Calvino (Laterza, 1999), Fino a Salgareda – La scrittura nomade di Goffredo Parise (Rizzoli, 2003) e Giùnapoli (Neri Pozza, 2006). Ha curato l’edizione di molti libri di altri, tra cui il Meridiano di Raffaele La Capria nel 2003. Dal 2007 al 2012 è stato presidente della Fondazione Premio Napoli. Sono del 2014 la “favola” L’Aleph di Napoli pubblicata da ilfilodipartenope e la raccolta di reportage Le parole a piedi pubblicata da Succedeoggi.

aurelio bulzattiAurelio Bulzatti è nato ad Argenta (Fe) nel 1954. Negli anni Settanta frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bologna, in un clima fortemente condizionato dall’arte Povera e Concettuale.L’anno della sua formazione artistica è l’81 a Roma, dove entra in contatto con gli artisti della galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Accomuna questi artisti l’interesse per il ritorno alla pittura, l’immagine evocata, la tecnica e il mestiere del dipingere. Bulzatti ha partecipato alle maggiori rassegne nazionali (Biennale di Venezia, Quadriennale di Roma). Attualmente vive e lavora tra Roma e Bologna.