Così un bel giorno
Illustrazione di Stefania Fabrizi
° ° °
E così un bel giorno
Ti si fece sotto il capo
Dico il capo
Del tuo servizio distaccato
Che aveva due o tre nomi
Fra cui Back Office
Quello che è restato
Un funzionario di
Livello alto sapete
Quasi un dirigente
Un sessantenne
Più sale che pepe
Tutto palestra e tennis
E abbronzatura
Color rosso mattone
Anche a gennaio
Sulla faccia magra una barba
Cortissima canuta
Ma fitta e brillante
A contrasto della pelle
Uno che vantava scopate
Un giorno sì e l’altro no
Con la moglie però
Solo con la moglie
Ci teneva a precisare
Ammiccante paraculo
Davanti alla tua collega di stanza
Una 46eienne ancora vispa
Che glielo tirava abbastanza
Lettrice di Cipria e Gioia
Lei – come lui palestrata
Come lui sempre in foia
Insomma si misurava il girovita
Costui il capo del servizio
Con una cinghia vecchia di serranda
Che srotolava un po’ per volta
Voleva misurarla anche a te
Un attimo dopo
Per canzonarti per sfregio
Visti i vostri rapporti
E la tua panza
Insomma costui gravitando
Nell’ufficio vostro a curiosare
A spettegolare a ciarlare
Perfino a lavorare
Con mossa repentina
Da quel figlio di troia che era
Acchiappa al volo
Sulla tua scrivania il mouse
Roba di un istante massimo due
Prima che realizzi
E lui già manovra sulla mappa
Insomma ti becca in flagrante
Vede che scrivi cristo santo
I tuoi cazzi invece di lavorare
Indugia anche a decifrare
Il titolo del documento aperto
Che scandisce con voluttà
Perché tutti sentano
Anche in corridoio
E nella stanza affianco
Era il tuo primo libro sulla banca
Quello con lui dentro e altri colleghi
Resi per ciò che erano
I nomi appena camuffati
Precise al millesimo le fisionomie
Quasi a sfidar la sorte
Secondo il tuo costume
Ti aspetti fuoco e fiamme
E invece indugia irresoluto
Al centro della stanza
Poi accenna a rispondere
Ma subito smette sbuffa
Quindi si toglie di torno
Così com’era venuto
Ma l’indomani eccolo ancora lì
A fissare gli oleandri fioriti
Oltre il vetro della finestra
E dandoti le spalle dice
A quella filigrana rosa
Che quasi lo inghiotte
Fra una questione e l’altra
Scambiata con gli altri della stanza
Che premi insieme troppi tasti
Per uno che lavora
E tu penosamente rallenti
La digitazione
Eri arrivato a tanto cristo santo!
Un ladro patentato un io a brandelli!
Per consolarti ti spedivi mail
All’indirizzo di casa
Dove ti annunciavi lo sballo serale
In modi estrosi e ingenuamente criptici
Oggi te la sei meritata baby
Today yes today yes today yes
Ti inviavi anche due o tre mail
Durante il tuo orario part-time
In cui parlavi al te stesso “sano”
Quello che sarebbe venuto
Quello che se ne stava al sicuro a casa
Nel suo guscio di libri musica fumo
I vetri spalancati sul balcone fiorito
Di ciclamini viola sul cotto
Del palazzetto di fronte
Quel rosso mattone segmentato
In rettangolini minuti che il sole declinante
A stento riusciva a dettagliare
Oggi te la sei meritata vecchio mio
Today yes today yes – and Tomorrow?
Maybe my dearest but not sure
Ecco cosa ti scrivevi
Nella tua posta privata
Ove solo tu potevi accedere
E tutto il giorno accarezzavi
Quell’idea che sola poteva consolarti
Sparartela in serata o meglio
Nel tardo pomeriggio sul balcone fiorito
Anche lì in segreto a qualcuno
Anche lì mentendo anche lì fingendo
Anche lì rubando lo stipendio
Quello della vita salvo ognuno

Ma per tornare al punto
Da quel momento
Per non farti più scrivere
Quello ti spedisce di qua e di là
In giro per l’istituto
Roba contabile che non sapevi fare
E tu a elemosinare
Consulti a destra e a manca
Con la lingua di fuori
E ogni volta fallisci perdio
E torni da lui cincischiando
Qualcosa chiedendo scusa
Pure lì a scusarti a scusarti e a scusarti
Ma di che cosa perdio?
Quasi di esistere diresti
Lui comunque di fronte
Alle tue scuse ogni volta
Sbuffa e severo ammonisce
Anche in presenza d’altri
Ma come non sei capace neppure
Di fare una fotocopia formato A3?
Ma ci sarà una cosa che sai fare
A parte quello che sappiamo?
E così per mesi su quella china
Della colpa dell’umiliazione
Ogni volta un nuovo morso
Sul vivo della carne
Finché non ne puoi più
Stai raggiungendo il fondo
Quasi ti pare di toccarlo
Qualcosa di sordido lutulento
Che rimonta alla colpa primordiale
La colpa di tutte le colpe
Quella sul padre – naturale
Che così bene conosci
La notte non dormi e scalci
Le sagome di nemici sempre pronti
A coglierti in fallo a svergognarti
La luce ti ferisce
E così il buio
Non ridi più non sorridi
Patisci – sicché quel mattino
Arrivi presto per trovarlo solo
Nel suo singolo prestigioso
Di funzionario e capo
Chiedi permesso entri
Umile riverente ossequioso
Chiudi pure la porta
Per isolar l’ambiente
Ti sistemi imposti la voce
Dichiari la tua fatica la tua ansia
La tua inquietudine malata
Con la faccia dolente
Se non proprio disperata
Anche stavolta
Ti aspetti una sfuriata
Una lavata di testa
Una denuncia al Personale
Perfino un trasferimento
Chissà dove a Savona a Bari
In qualche sperduta filiale
In culo al Paese
O licenziamento per giusta causa
Roba così vatti a sapere
Qualcosa insomma di pesante
Sei già pronto alla mazzata
In un lampo pure rifletti
Che tanto peggio di così
Non può andare
E invece lui ti spiazza
Ti compatisce e dichiara
Di aver subito un brutto trattamento
Pure lui in passato nella sede catanese
Con un capo disgraziato
A cui stava sul naso
Eh no al lavoro non
Si può mica soffrire d’ansia!
Conclude solenne
Ma non sono resipiscenze
Beninteso gli è che teme
Rappresaglie sindacali
Comunque promette
Assicura che finalmente
La smette – accenna solo nel finale
Al tuo vizietto
E tu fingi di niente
Cos’ altro potevi fare?
Ammettere che scrivevi
E scrivevi e scrivevi
E perdio avresti continuato a farlo
Pure al suo funerale!?
Non manchi di stringergli la mano
Alla sua festa di congedo
Prima della pensione
Quei penosi party aziendali
Dove recitavi il tuo copione
Di schiavo appagato e sorridente
E gli fai nel mentre della stretta
Beh, non sei contento?
E lui, certo che no
Perché dovrei?
Con dispetto nella voce
Muovendo il mento
Da una parte all’altra
Come un uccello acquatico
Una risposta che diceva tutto
Di quanto fossimo diversi
Lo ricordi sempre
Con pesantezza di cuore
Quel tipo ordinario
Che fuori dalle mura sudate
Della banca non avresti
Nemmeno degnato
Di uno sguardo
Uno dei tanti
Manco il peggiore
Che funestano i tuoi sogni
Ancora e ancora come se il tempo
Non fosse mai passato
Con te in eterno inchiavardato
Alla tua scrivania di impiegato
Vicino alla finestra
Chissà perché lo cerchi
A distanza di tanti anni
Sul web sui social
Che frequenti
Senza motivo anzi
Per dire il vero
Con la vaga idea
Di fargli un torto
Ma non lo trovi
Per fortuna
Di certo non pregheresti per lui
Se fosse morto
* * *
Andrea Carraro, narratore di normali orrori quotidiani, è romano e alle contraddizioni della sua città ha dedicato molti dei suoi romanzi. Fin dall’esordio con Branco, 1994, storia di uno stupro di gruppo che divenne un film diretto da Marco Risi. Poi sono venuti: L’erba cattiva, 1996, con Giunti, La ragione del più forte, 1999, Feltrinelli, i racconti de La lucertola, 2000, Rizzoli, il romanzo Non c’è più tempo, 2002, sempre Rizzoli e ancora Il sorcio, 2007, Gaffi, i racconti de Il gioco della verità(2009), Hacca, e la raccolta di reportageDa Roma a Roma (Ediesse, 2010), poi Come fratelli, Barbera, 2013 e la raccolta di poesie Questioni private, Marco Saya 2013. Autore di racconti e reportage, è stato direttore editoriale di Gaffi e per Succedeoggi, ha curato le due edizioni della rassegna di racconti Testo a fronte oltre a quella dei «Racconti del peccato».
Stefania Fabrizi è nata nel 1958 a Roma, dove vive e lavora. Tipici della sua ricerca artistica sono personaggi ambivalenti e spaventosi, replicanti, alieni, eroi e criminali, atleti e lottatori. Con salde pennellate l’artista crea mosaici simultanei di personaggi presi sia dai fumetti sia dalla storia dell’arte, dal cinema di fantascienza come dalla cronaca, dando vita a un sistema iconico complesso e stratificato dove ogni tassello ha un valore allusivo. Ha esposto in numerosissime personali e collettive, in Italia e all’estero.