Leo Carlesimo

Commiato

Illustrazione di Pier Luigi Berto

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Fuori, per giorni e giorni non ha smesso di nevicare. Poi s’è alzato il vento e la temperatura è scesa, il termometro segna diciotto sotto zero. Nello scantinato però c’è un bel caldo. Il pavimento è asciutto, quella pozza d’umidità sotto la caldaia s’è seccata. Posso sistemare qui lo sgabello… Gran bella casa. Tante migliorie, nel corso degli anni…

È domenica, Mara, Ethel, Sandra e Irene sono andate a messa. Come sempre, io non le accompagno. Da quando sono tornato, provano a trascinarmici in tutti i modi, ma proprio non li sopporto, io, i preti… Dopo, però, sono uscito anch’io. Così, tanto per fare due passi. C’era neve ammucchiata ai bordi della strada. Sono arrivato fino alla chiesa. Il cimitero, sul retro, minuscolo recinto di pietra dove s’allineano ordinate le steli funebri. Il fontanile è un ammasso gelato, dentro al quale gorgoglia ancora un esile rivoletto d’acqua. Una scorza di brina bianca incrosta i rami di scarni alberelli. Le cime delle montagne gettano la loro ombra sul fondovalle, quattro case dai frontoni rivestiti in legno, soglie invitanti e perfettamente curate, tendine bianche alle finestre, staccionate di tronchi che riquadrano campi imbiancati, le linee esatte delle strade disegnate dal contrasto tra il candore della neve e il fondo lucido dell’asfalto. Questo freddo paesaggio invernale dovrebbe essermi così familiare…

È da qui che sono partito, nel ’53. Mara allora non aveva neanche vent’anni. M’ha accompagnato alla stazione della corriera. Il paese era ben diverso, a quei tempi. Fatiscenti baracche dove si gelava, odore di stallatico e di miseria, cataste di legna, muli bradi. Nel dopoguerra quassù si moriva di fame. Lei versò qualche lacrima, più sincera – c’è da sperare – di quelle che spanderà domani. M’ha alzato il bavero della giacca, accomodandomi sulla testa il berretto con mani nervose e tremanti. Ci siamo scambiati poche e stente parole, da montanari. Poi m’ha guardato salire sul predellino, in mezzo agli altri braccianti, e ha seguito con lo sguardo la corriera che arrancava su per la camionabile ghiacciata e scoscesa…

Beh, la passeggiata è servita a mettermi freddo, e a farmi venire voglia di bere. Tre grappe ho buttato giù, una dietro l’altra, al mobile bar della stube… Quanto alla scena della corriera, sarà anche stato un commovente addio, ma da allora in poi non credo d’essere stato molto rimpianto, da queste parti. In quarant’anni di vita all’estero, ci sono tornato così di rado, una o due volte all’anno, per pochi giorni… Fugaci comparse di un forestiero. E sempre con quel senso di malessere addosso, quel disagio che trasmettevo ai parenti, ai pochi amici che avevo, e si risolveva subito nell’ansia di ripartire. A volte non mi facevo vedere per anni interi.

Pier Luigi BertoLontano, non stavo male. Qualcuno si portava appresso la famiglia, ma non io. Fin da subito non ho voluto Mara con me, l’ho tenuta caparbiamente fuori dalla mia vita africana. Non che avessi altre donne laggiù. Non tradivo troppo mia moglie, non più del necessario. Ma ho sentito fin dall’inizio quella cesura, quella scissione di mondi. Non erano cose da unire, ma da tenere disgiunte… Intanto, laggiù, lavoravo sodo. In cantiere vivevo come un selvaggio, ero solitario, rabbioso, ostinato. Avevo dentro una giovanile durezza, e un’aridità da forzato, e la capacità d’andare avanti comunque, a denti stretti.

Un passo alla volta, ho fatto strada. E quando tornavo, agli occhi dei compaesani cominciavo a incarnare un modello invidiabile, da queste parti: la riuscita dell’emigrante. Il successo un po’ alla volta s’è trasformato in benessere, poi in ricchezza, accompagnata dalla sua piccola dose di potere… Lei è rimasta qui, ad accumulare stipendi che ho sempre mandato a casa quasi intatti; e, assieme agli stipendi, anche dubbi e rancori di una separazione non voluta, subita per decisione mia. Da queste parti ce n’erano parecchie di donne così, le chiamavano vedove bianche.

Facendo carriera, e portandomi dietro tanti giovani di queste valli, la mia reputazione in paese è cresciuta. Sono diventato un uomo importante, uno dei notabili. Non che m’importi della loro opinione, non m’ha mai interessato quel che la gente pensa di me. Ma ha avuto una certa importanza nella vita di lei. E’ stato, in qualche misura, una sorta di risarcimento per una vita coniugale infelice. E’ una donna nota in queste montagne, una signora rispettata. Ormai possiede la bella casa che ha sempre desiderato, con molte camere da letto e molti bagni, un arredamento costoso e un po’ pacchiano, una taverna con la stube e un garage con la porta automatica. Quasi ogni giorno c’è qualcuno che viene a riverirla e a ringraziare del posto ottenuto, oppure a chiederne uno. E quando va a fare la spesa, il fornaio, il macellaio, il droghiere la fanno passare avanti e la servono per prima; le altre donne non protestano, sono loro stesse a cederle il posto.

Tre figlie, m’ha dato. Tutte femmine. E con gli anni, in vecchiaia, il suo rancore non s’è placato. Ci provano pure, lei e le ragazze, a farmi sentire in famiglia, benvenuto in casa mia. Ma io so che le cose non stanno così… Beh, lascerò la luce accesa, lungo le scale. E la porta aperta in fondo alla taverna. Così mi troveranno in fretta, inutile farle girare a vuoto.

Ho sempre lavorato, io, la vita me la sono sudata e non chiedo elemosine alla fine. Il lavoro m’ha dato molto, m’ha protetto dalla solitudine. Ma ora che è finito lei ti salta addosso, e morde. E tu sei un vecchio inerme, senza più difese… Quando mi misero in pensione, otto anni fa, trovai da fare come consulente. La mia vita quasi non cambiò… Poi chiusero anche l’ultimo cantiere. Rientrai, convinto che sarei stato presto richiamato. Ma la chiamata non venne. Allora spedii in giro il mio curriculum, battuto a macchina da una delle ragazze, Ethel credo, o Irene. Ma a sessantasei anni non sono più ‘una risorsa’, pare, che le ditte possano prendere in considerazione… Io però non la vedo così, ho ancora bisogno di lavorare, non un bisogno economico ma più profondo, fisico, organico…

Dovrei farmene una ragione… Sono davvero in pensione, una buona volta a casa, tra le mie valli e le mie donne. Solo che non sono tipo, io, da farmi una ragione di qualcosa, e così ecco qua: un tubo di caldaia nello scantinato della mia casa da uomo ricco, una cinghia di cuoio al collo e una pedata allo sgabello…

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Foto Leopoldo CarlesimoLeo Carlesimo è nato a Roma nel 1959. È ingegnere. Lavora per imprese che costruiscono dighe in Africa e in Asia. Vive a Roma, ma in passato ha vissuto per anni in diversi Paesi africani. Ha pubblicato una raccolta di racconti, Baobab, Gaffi 2006. Suoi racconti sono apparsi su Nuovi Argomenti.

foto bertoPier Luigi Berto, allievo della scultrice russa Lidia Trenin Franchetti discepola di Despiau, frequenta sin da giovanissimo l’atelier di Carlo Levi sempre a Villa Strohl-Fern. Espone alla Margherita di Calzetti e da Cortina a Milano. Insegna dal 1988 all’Accademia di Belle Arti di Roma. Hanno scritto di lui, tra gli altri, Renzo Bertoni, Dario Micacchi, Jolanda Nigro Covre, Giuseppe Selvaggi, Vito Apuleo, Costanzo Costantini, Marco Di Capua, Robertomaria Siena, Marco Nocca.