Amicizia
Illustrazione di Massimo Campi
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Massimo è stato il primo a lasciare la città. Dopo di lui altri ancora se ne sono andati; molti altri. Quasi tutti, a dire il vero. Il numero preciso non saprei nemmeno dirlo, ormai non li conto più.
Però, quando toccò a lui di partire reagii davvero male. E non tanto perché fosse il primo tra noi. Né potrei dire che non me l’aspettassi. Dalle nostre parti l’idea che a un certo punto uno lasci tutto e se ne vada a vivere su è la regola; l’eccezione semmai sono io, che non voglio decidermi, che mi ostino a rimanere. Perciò credo che a considerare la sua partenza una cattiva notizia fu semplicemente l’amicizia che mi legava a lui, soprattutto in quegli anni; gli anni in cui a contare più di tutto, più delle donne più della famiglia più delle canne, erano gli amici. Forse le canne no, direi pari merito.
A pensarci, ora, mi sembra impossibile che mi sia fatto tutte quelle canne. E i miei amici, che oggi sono stimati professionisti – gente sposata, con la casa, i figli e tutto quanto il resto –, loro, mi sembra proprio inimmaginabile. Eppure, c’è stato un periodo in cui non si pensava ad altro.
Andavamo naturalmente ’o terzo munno, come si chiamava e si chiama tuttora la zona di spaccio più importante della città, e forse non solo della città – almeno, nell’immaginario collettivo, dopo il libro e il film che c’è stato. C’erano ’e case re’ puffi, che ora non saprei dire dove si trovassero, se dentro ’o terzo munno o nei paraggi, è tutto sempre più sfocato. Poi c’era lo chalet Bakù, sempre da quelle parti, credo. Si cambiava zona a seconda delle voci che di volta in volta suggerivano la piazza migliore. E, a proposito di voci, ora che ci penso, se c’è una cosa che in quegli anni m’ha rubato più tempo delle canne è stato il parlare di canne: aneddoti, metodologie, dritte: si potevano passare delle ore a parlare di come chiudere lo spinello, dove comprare il fumo, come fare il filtro; l’annoso problema dei guardi e quello non meno assillante della fame tossica, anche detta chimica; e della gola secca, anche detta ’o desert ’mmocca. E decine per non dire centinaia di altre idiozie mentre bruciavamo i nostri vent’anni chiusi, rintanati dentro un’auto, nascosti nel più buio dei vicoletti.
Una volta mi ricordo che ci sentimmo davvero un’accolita di falliti.
Era la solita serata di spinelli, niente di diverso dal solito: due chiacchiere, qualche disco e un po’ di politica e letteratura alla meno peggio: più spocchia che altro, mentre con calma ci dirigevamo al solito posto.
Raggiungiamo la piazzetta, facciamo il solito giro, i pali ci riconoscono, e non so proprio che cosa vedano di familiare dal momento che le macchine s’avvicendano con una frequenza incredibile. Forse vedevano quattro sbarbatelli coi capelli lunghi e capivano di avere a che fare con dei poveri idioti assolutamente inoffensivi, doveva essere questo.
Ci dicono fatte nu’ giro, come a dire, manca il fumo, sono andati a prenderlo, ripassa. Ma può significare anche un’altra cosa. Può significare che se ripassiamo potremmo trovare i guardi, che mettono la mano in tasca e fanno finta di venderti il fumo, tu dici la solita frase: ’nu piezze ’a vinte, quello si dichiara maresciallo e sei fregato. A dire il vero, non so bene cosa rischiamo, so solo che più passa il tempo più siamo nervosi.
Al secondo giro l’uomo ci dice di aspettare, è questione di momenti. Siamo fermi, è notte fonda; se volesse, potrebbe anche decidere di farci scendere e prendersi la macchina, noi nemmeno apriremmo bocca. Devo essere sincero: me la sto facendo addosso! Non è tutto, questa volta ci è capitato un balordo: è su di giri, comincia a ballare, e a straparlare; il mio amico seduto davanti è costretto ad ascoltarlo, e a ridere alle sue battute, ma si vede che tutto vorrebbe fare fuorché starlo a sentire. In questo momento mi sento una vera nullità, uno stato d’animo molto diverso dall’opinione che generalmente ho di me. Diversi, migliori, è questo quello che pensiamodurante le nostre lunghe, inutili discussioni pseudo politiche; la verità, invece, è che passiamo il tempo a dir male di tutti, a fare le vittime, a pronunciare frasi vecchie, vecchissime; a dire combatti il sistema, e non ci siamo accorti che ’o sistema da sconfiggere c’era per davvero ma era un altro; questo è niente, gli davamo anche i nostri soldi.
Lo spacciatore mi risveglia dalle mie riflessioni. Sta esultando. Una voce da lontano ci ha appena fatto sapere che il fumo sta arrivando. Ci rassicura: fumeremo più del Vesuvio, dice, ce la spasseremo. Poco dopo, dalla semioscurità di un vicoletto, sopraggiunge qualcuno. L’uomo riconosce la figura che avanza pian piano e allarga la faccia a un sorriso; dopo un po’ la vediamo anche noi: è una bambina, avrà cinque, sei anni al massimo. Procede lentamente per via della busta con le dosi che le impaccia il cammino; ha una gonnellina di velluto scuro che non dimenticherò mai e i capelli a caschetto. L’uomo la attende raggiante e nel frattempo le dice le solite smancerie che si dicono dalle nostre parti e che in bocca a lui, in questo momento, mi danno letteralmente la nausea: «bijou, core ’e papà, zuccaro!»; lei lo ricambia con un sorriso innocente che a un certo punto finisce per dirigere su di noi, e quei pochi metri diventano definitivamente un supplizio. Finalmente raggiunge l’uomo. Lui la prende in braccio, agguanta la busta e con una naturalezza incredibile le schiocca un bacio sulla fronte; lei è ancora là che ci guarda mentre noi prendiamo quello che dobbiamo prendere e ce ne andiamo.
È Massimo che guida, corre il più possibile. Nessuno parla in macchina. Tocca a me trovare una spiegazione, una qualche giustificazione, e la trovo, la butto in politica: questa società è marcia, noi non c’entriamo niente. E poi lo facciamo. Quello al mio fianco è già all’opera, siamo amici da anni, ma adesso mi guarda come si guarda uno qualunque, un compagno d’avventura, o di sventura; mi tozzoleia col gomito, mi passa un cartoncino; non c’è bisogno che parli, ho già capito tutto; anche lui sa che non c’è bisogno di parlare: uno guida, l’altro raccoglie i soldi, c’è chi squaglia e chi fa il filtro. Peccato che non ricordi nient’altro, forse c’era della musica in sottofondo, o forse niente.
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Davide D’Urso è scrittore, libraio e operatore culturale. Esordisce con la raccolta di racconti “Il paese che non voleva cambiare” (Manni, 2007). Intanto, attirato dalle iniziative dell’allora presidente Silvio Perrella, prende a collaborare per la Fondazione Premio Napoli, pubblicando dei racconti per la pagina on-line; racconti poi confluiti nel libro: Incontri notevoli di un libraio militante (Valtrend, 2012). Nel 2013 partecipa all’antologia Fuoco sulla città (Ad Est dell’Equatore) con il racconto Fuocoefiamme. Nel 2014 è la volta di Tra le macerie, romanzo pubblicato per l’editore romano Gaffi.
Massimo Campi (nato a Roma) è diplomato all’Accademia di Belle Arti. Prima personale nel 1989. La sua ricerca è nell’ambito della figurazione, con particolare attenzione al paesaggio urbano. Ha nel suo curriculum numerose mostre personali e collettive in gallerie private e musei pubblici: d’AC; museo di Anticoli Corrado; museo Michetti; Padiglione Italia, Biennale 2011; Fondazione Bevilacqua La Masa.