A proposito di “Spiriti della notte”
Racconti da Boss
Sono ispirati alla musica e alla rabbia di Bruce Springsteen i racconti di Valerio Bruner. Un insieme di storie autentiche di un'America da attraversare come una prateria
La corrente sotterranea che bagna i 25 racconti ispirati alle canzoni di Bruce Springsteen (Spiriti della notte, di Valerio Bruner, Homo Scrivens, 174 pagine, 15 Euro) è un lungo fiume: The River, per usare parole care all’ispiratore, appunto, una corda tesa che non appartiene né a un violino né a un arco ma all’accordatura di una chitarra, rasposa e dolce come il suono-Springsteen. Qui sentiamo il suono-Bruner, come riconosciamo subito, per dire, appena parte un riff suonato da Edge, il suono-U2. È narrativa ed è musica ed è cinema ed è teatro: tutte le arti che Valerio Bruner, musicista e anglista da Napoli, trama, nessuna esclusa, nella parola cantata e nella parola declamata senza enfasi ma col cuore e l’anima ogni volta che si ha la fortuna di ascoltarlo.
Un menestrello gentile su cui insistono le migliori eredità musicali, a cominciare da Bob Dylan, che a suo tempo, fine anni ’70 / inizio anni ’80, passò il testimone proprio a quel Bruce Springsteen da Freehold, N.J. che in pochi anni divenne the Boss.
I ricordi sono freschi ma di recente un biopic firmato da Scott Cooper, Deliver me from nowhere, ci ha riportati all’intimismo folk e all’anima blues a stento trattenuta del Bruce Springsteen degl’inizi, ancora ingabbiato nelle tensioni familiari, giovane uomo malinconico, coinvolto nei mali del mondo tra le micro tragedie domestiche e le macro questioni planetarie, in un milieu sociale impregnato di cultura e politica, e anche di ingenuità o di innocenza, e di freschezza, popolari.
Un mondo di automobili comprate dal solito rivenditore col parco macchine esposto lungo la strada, e di corse nella notte verso la casa-rifugio, e di pezzi scritti con grafia stenta su pezzetti di carta e accennati con pochi accordi su una chitarra acustica, registrati su certi nastrini senza custodia in cui, benché ci fosse un fonico (stranito per la verità), il Boss sul punto di diventare il Boss voleva fosse conservato intatto il tratto ruvido, quasi naïf, di un rock pieno di grazia e sporco, non affettato.
Tutto questo esplode in Born in the USA tra il giubilo di quanti sono in studio di registrazione mentre la voce rauca raschia il fondo della melodia per raccontare cosa sia davvero l’America tanto decantata: la terra delle opportunità, la patria del sogno americano, il Paese dei più oscuri incubi e delle più feroci discriminazioni – cioè Badlands, che è un pezzo formidabile del nostro, ma è anche un libro edito da Donzelli, scritto da Alessandro Portelli, grande americanista, il quale legge i testi del Boss costruendo una lettura anti-trionfalistica degli Stati Uniti, cioè rivelandoci un’America autentica e profonda, la controcultura americana, per capirci, di cui il Boss è voce verace e dura.
La voce del Boss emerge anche da questi racconti il cui setting è proprio l’America profonda che non ha nulla di cosmetizzato né di edulcorato: sono 25 storie che sbrogliano trame sintetizzate dal repertorio di Bruce Springsteen, ciascuna nello spazio di una canzone, con le pennellate graffianti e i graffiti tremolanti di una sintesi che agisce su tutti noi per suggestione, trascendendo addirittura gli strumenti pur strutturati della versificazione. In sostanza dalle lyrics dei pezzi registrati in fondo a ciascun racconto, Valerio Bruner ha sbrogliato le possibili storie che esse secretano, e ha liberato il motore narrativo che nei tre minuti o poco più di una canzone è compresso fino a esplodere. Perché poi va detto che il boss è un mago del rock, una rolling stone sempre in moto come una pallina di flipper, ben più di una mina vagante, è energia squisita e travolgente – ed è disarmo in purezza.
Sento già sibilare una possibile rimostranza a questi racconti, in cui tutto è americano: il ritmo e il tono dei dialoghi, l’ambientazione, le dinamiche sociali e relazionali, naturalmente i nomi e anche le questioni civili, la discriminazione verso i neri o i nativi relegati nelle riserve, la resa di questi cittadini di ultimo grado alla diminutio cui per prassi essi stessi sono rassegnati tanto che nemmeno si sognano di metterla in discussione. Uno stuolo di poveri diavoli, un esercito di sbirri e poliziotti di strada sempre di pattuglia, e investigatori che inguaiano i poveri diavoli, e ragazze reclutate di malagrazia, e poi gli addetti alla pena di morte, i giustizieri di legge, gl’impiegati della morte.
Anche il tempo è una coordinata radicale del setting: i racconti coprono un arco temporale segnato dalle ballate del Boss, con escursioni vertiginose che toccano gli anni Settanta e insistendo molto sugli Ottanta e i Novanta, i decenni d’oro della musica di Springsteen, arrivano fino al 2020 – e tutto questo tempo è il tempo lungo e puntuale di queste storie elaborate da Valerio Bruner.
La sento sibilare la rimostranza, e potrebbe essere: ma questo immaginario non ci appartiene, non c’entra con noi, come fa un musicista di Napoli a formulare storie totalmente americane quasi fosse plagiato? Deve rivedere il proprio immaginario, pur al netto della grande qualità di scrittura?
Intanto questi racconti, tutti, dal primo all’ultimo, sono dei blues, cioè delle storie tristi e elegiache. E hanno una profonda radice folk, cioè una vena popolare autentica, esprimono un sentire comune senza alcuna sovrastruttura classista. E però hanno dentro la rabbia e la graffiante ruvidezza del vero rock – questo mi fa subito pensare a quel momento, nel biopic di Scott Cooper, in cui Bruce Springsteen non ancora The Boss suona e duetta col cantante della sua band in una cover di Lucille – il pezzo di Little Richards che ha semplicemente stravolto il rock’n’roll negli anni Cinquanta.
Cioè Valerio Bruner non solo ha raccolto il testimone lanciatogli da Bruce Springsteen ma dialoga con lui lungo la scia seminata dai pezzi del Boss, ispirato a tirar fuori queste storie in una forma più tonda e conclusa rispetto alla formula delle canzoni: sono dei ritratti per tratti, storie tratteggiate che Valerio Bruner ha ripreso e disteso lungo linee e sviluppi narrativi possibili.
Dunque il terreno su cui l’allievo si ritrova col Maestro, e il fan sfegatato riesce a incrociarsi col suo idolo (un idolo però in carne e ossa, non volatile, non un fatuo mito), è dislocato a partire sempre dalla musica ma rivolgendosi a una pluralità di sensazioni e espressioni che tirano dentro anche una serie di illustrazioni in b/n di Ivano Bruner, una serie di scritti di contorno che rimarcano la matrice musicale e la felice disseminazione evolutasi verso altre arti, un artwork di copertina che strizza l’occhio alla narrativa popolare, e infine un decalogo di consigli di album o pezzi irrinunciabili.
L’America che c’è in queste storie ci suggestiona soprattutto per la galoppata nella vasta prateria di una porzione di continente che ci offre, fornendoci terreno e aria per respirare, un mondo mutuato sì da Bruce Springsteen, ma anche da tutta una cultura letteraria e cinematografica che, tanto per dire, sperimenta atmosfere assaporate in L.A. Confidential (il noir e il film), o in Paura e disgusto a Las Vegas (libro e film), o in film efferati o misteriosi come Blue Velvet di David Lynch, o il suo Strade Perdute, o Mulholland Drive, o nel Sud profondo di certi racconti di Flannery O’Connor come di Stephen King, senza il patetico pietistico popolare, o anche del Tom Ford di Animali Notturni.
E poi, proprio attraverso Bruce Springsteen, non mancano sensazioni che rimandano a Steinbeck, a Uomini e topi come a Furore e al suo leggendario Tom Joad. Cioè è palpabile e a volte apertamente espressa anche la passione civile di Valerio Bruner, per interposti temi e interposte ambientazioni: qui Valerio Bruner riprende certe sue battaglie già forti in altri interventi, nella musica e non solo, che si può dire gli appartengano non di più ma in modo più riconoscibile. Se c’è stato un bluesman di grande significato a Napoli è stato Pino Daniele, che peraltro ha affermato apertamente la sua appartenenza tutta radicata nella musica sia a Napoli che all’America del blues, appunto, con ballate immortali in cui ha rimodulato il napoletano in un fitto intreccio con l’angloamericano a riprova di un’appartenenza musicale (patria labile e vasta) plurima come pure cucinando il proprio dialetto in un idioletto duttile e impastato, pieno di grazia.
Ecco, sì, questo pugno di racconti di Valerio Bruner è pieno di grazia.
Accanto al titolo, Bruce Srpingsteen in concerto nel 1988. Licenza creative commons.