Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Murgia e la leggerezza

"Tre ciotole", il film che Isabel Coixet ha tratto dal libro di Michela Murgia, è un racconto lieve su temi eterni: amore, amicizia, malattia e morte. Con due ottimi interpreti: Elio Germano e Alba Rohrwacher

È un film denso come il libro cui si ispira fin dal titolo, l’ultimo libro che Michela Murgia presentò al Salone di Torino nel maggio 2023, tre mesi prima di morire: Tre ciotole. E se è vero che quasi sempre il libro è meglio del film, la regola in questo caso non vale, perché la pellicola firmata dalla regista e sceneggiatrice spagnola Isabel Coixet e interpretata da Alba Rohrwacher ed Elio Germano dà del libro una versione originale e perfetta. Tanto che chi lo conosce non resterà deluso e chi non l’ha letto credo lo leggerà.

Film denso perché i temi che affronta sono tali: l’amore, l’amicizia, la malattia, la morte. Ma il tono è tutt’altro che melodrammatico, al contrario è leggero, delicato, gentile, persino ironico e divertito, perché così è la scrittura di Murgia nel raccontare, come dice il sottotitolo, quei “rituali per un anno di crisi” che sarebbe stato il suo ultimo anno. La regista imbastisce abilmente la sceneggiatura collegando almeno quattro dei dodici racconti del libro e costruendo una storia unitaria, come esige lo schermo, intorno a un punto di partenza: la fine dell’amore tra Marta e Antonio.

Fin dalla prima scena che li vede litigare per niente dopo una serata tra chef, i due protagonisti presentano le loro fragilità nel momento che precede la rottura della loro relazione che dura da sette anni: Antonio è lo chef del ristorante trasteverino “Senzafine” assorbito dal tentativo di affermarsi rivisitando la cucina romana e insofferente delle rigidità della compagna che non vuole fare ciò che non le va; Marta si sente sola perché lui ha smesso di cucinare per lei e in questa assenza risuonano altri vuoti, la consapevolezza della fine del loro amore (belli i flashback dei suoi ricordi che la regista traduce in immagini sgranate come quelle di un filmino amatoriale).

Il giorno che segue il litigio lei rientra a casa dal lavoro (insegna educazione fisica in un liceo scientifico) e scopre che Antonio l’ha lasciata. L’abbandono la distrugge e diventa subito un malessere fisico: Marta non ha più fame e quando mangia vomita. È il primo segnale della malattia di cui lei si accorge troppo tardi e che non le dà scampo. Ma Marta non cede alla disperazione, al contrario il tempo che le rimane da vivere diventa per lei il momento più prezioso e felice che le fa riscoprire la meraviglia della vita proprio quando la vita è più dolorosa. A scuola si prende cura delle sue allieve con attenzione ancora più vigile, concede uno spazio al collega timido che da sempre è innamorato di lei, spinge sui pedali della sua bicicletta mentre attraversa Roma al tramonto e intanto osserva gli storni che a migliaia disegnano in cielo figure mutevoli chiedendosi perché lo fanno e alla fine trova la sua risposta: non è vero che lo fanno solo per sottrarsi ai predatori, lo fanno perché gli piace farlo.

La regista accompagna con delicatezza e partecipazione ogni passaggio della storia di Marta e Antonio e lo spettatore si identifica facilmente nel suo sguardo complice, a tratti divertito, a tratti commosso, senza mai perdere il ritmo del racconto tanto che scorrono veloci i 122 minuti della pellicola. Molto merito va alla bravura degli interpreti, a cominciare da Elio Germano nei panni dell’arrabbiato Antonio e soprattutto Alba Rohrwacher, all’inizio una Marta aggressiva e giudicante che via via si trasforma in una donna silenziosa che fa i conti con se stessa e che proprio nell’insicurezza trova la forza di accettare il proprio destino. Accanto ai due protagonisti ci sono la brava Silvia D’Amico nella parte della sorella Elisa e soprattutto l’ottima Galatea Bellugi (Silvia), già protagonista del bel film di Margherita Vicario Gloria! e che rivedremo a fine ottobre nel nuovo film di Paolo Virzì Cinque secondi.

Le tre ciotole nel libro sono i contenitori del cibo quotidiano necessario alla sopravvivenza: riso in bianco, pollo o pesce a pezzetti, verdure cotte e crude. “Le tre ciotole rimettevano a posto tutte le gerarchie tra stomaco e cervello”, scrive Murgia. In realtà sono qualcosa di più, un rituale per avvicinarsi al mistero in un mondo che nega tutti i riti e tutti i misteri. L’abbraccio in cui si stringono Marta e Antonio sulla riva del Tevere quando si ritrovano e lui sa della malattia di lei, è una dichiarazione d’amore per la vita più forte della morte e più forte dello stesso sentimento che li legava. Non c’è più tempo per occuparsi di cose stupide e di cose stupide Marta ne faceva, come scrivere stroncature anonime del ristorante del suo ex fidanzato. Ma adesso Marta sa che non è importante quanto a lungo si resta sulla scena, ma quanto si è presenti e consapevoli nel film che ci vede tutti protagonisti. Le tre ciotole sono allora una metafora: sta a noi decidere con che cosa riempirle.

Consiglio: non perdete i titoli di coda, uscirete con un sorriso.

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