“Lo sguardo senza fine” di Loretto Rafanelli
Epifanie nel rapido transito della vita
Non una semplice autoantologia il libro che ricapitola i quarant’anni di poesia dell'autore emiliano. Piuttosto un “montaggio”, un’architettura accuratissima non cronologica che fa emergere, come in un’elegia, le cose che per il poeta contano davvero: la memoria, i luoghi, gli incontri, lo sguardo sulla Storia, il presente, gli affetti
Lo sguardo senza fine (Jaca Book, Milano 2025, pp. 232) è il felice titolo che ricapitola quarant’anni di operosità di un poeta il cui valore si era rivelato fin dal titolo di esordio, e si è andato confermando e sempre più precisando di raccolta in raccolta. Una ricapitolazione, messa in opera da Loretto Rafanelli con questo libro, che nel formulare la sua scelta autoantologica non muove dal più antico al nuovo, libro dopo libro secondo un ordine cronologico, ma stabilisce una divisione tematica del materiale considerato, che presenta a partire proprio dai testi più recenti: le quattro sezioni sono infatti aperte da poesie inedite e procedono per così dire in senso antiorario (ma della prima raccolta sono comprese solo quattro poesie, tutte poste al termine della prima sezione). Si tratta di un’architettura studiatissima in cui il poeta, come ha scritto Roberto Mussapi – forse il critico più consentaneo di Rafanelli – «si fa regista della propria opera» grazie a un montaggio che individua quattro grandi temi: la memoria, i luoghi, lo sguardo sulla Storia e il presente e infine gli affetti. Va però aggiunto che tali temi sono non di rado interrelati e dunque non nettamente “classificabili” entro una partizione che li contenga.
L’originalità della messa a punto non è fine a sé stessa e permette bene di orientarsi nell’articolato mondo poetico dell’autore mettendo nel contempo chi legge a contatto con un libro nuovo, che in forza di differenti rifrazioni e collegamenti testuali getta luce altra e si sottrae al puro referto antologico. Al centro di questo mondo, e presente in ogni sezione, è il luogo a partire dal quale il poeta costruisce il proprio sguardo, che è affettivo, memoriale, civile. Porretta, quel «malcelato fiocco di creta» sulla «dorsale del ghiaccio» che collega Pistoia a Bologna è luogo di inverni magici e segreti; bianco di una neve di cui la pagina ci fa sentire l’odore, la consistenza sulle labbra. È come uno scrigno che serba le ragioni del cuore e insieme un tema di fondo che tutti gli altri presuppone. «È il freddo, il freddo largo / delle sere, che il monte consegna / nel suo segreto porgersi alla piazza / incantata, che fionda ai miei occhi / nella sua ovale perfezione d’oro / la mia piazza solcata dagli scuri / lastroni degli anni…».
Da tale intima radice, da tale cristallo è convenuto tuttavia che si parta, non fosse che per un’assolata spiaggia adriatica di cui una remota cartolina filiale conserva memoria, o per una Bologna universitaria «città dell’incanto» o per una altrettanto cara al poeta Pistoia, che custodisce le origini familiari. E dove vive, offeso da anni di malattia, Roberto Carifi, l’amico e maestro di poesia a cui l’autore dedica una lirica toccante, dicendoci come anche nelle distrette del dolore tale magistero si rinnovi, così da non pensare «più che il giorno sia notte / e il buio ci accompagni nella sua martellante strofa. Ma non mi / lascia la pena che si fa grave in questa / via minuta di Pistoia, la città / dei padri, dove la tua scrittura / è il canto estremo». Carifi e prima di lui Bigongiari e Luzi sono stati certamente i poeti che hanno orientato la formazione di Rafanelli (nella foto sotto), la sua lingua poetica scarnificata e accesa nel restituirci il cuore delle cose, il suo retroterra spirituale e civile. Civile perché la poesia è tale se assolve al suo mandato di verità nelle parole che adopera, qualunque oscurità restituisca, qualunque argomento, anche il più intimo, affronti.
A questo modo, e con tali coordinate di scrittura vive anche la sezione in cui più esplicitamente lo sguardo del poeta si posa sulle vicende così spesso tragiche del mondo, sulle lapidi della Storia, con un’antiretorica asciuttezza di sapore fenogliano, come nella bella lirica in cui il poeta ragiona sul valore della memoria: «Ricorda, dissi al ragazzo / che guardava senza accenti. Ricorda / nell’oggi che è crocevia di gole trafitte / dall’acciaio postumo. / Incrocia questi nomi nel gorgo / che si chiama Sabbiuno, / rosario di dicembre del ’44». È una asciuttezza che nelle poesie di argomento memoriale si contempera di una vena elegiaca, a dar risalto al dono degli affetti nel seno del più ampio dono della vita, sentita quest’ultima come luce di troppo rapido transito e per questo tanto più preziosa.
E c’è un momento epifanico in questo libro in cui l’autore è come volesse cingerla tutta in un abbraccio solo: la poesia si chiama Passaggi, ed è costruita su due grandi spericolate enumerazioni, quasi un arazzo in cui il tessitore poeta, in assenza di ogni hybris prospettica, dispone le sue figure e i suoi colori che tutti insieme e su un medesimo piano meraviglieranno lo sguardo. È raro veder disporre con tanta semplicità, ma anche con tanta esattezza e maestria, quelli che sono insieme i motivi della vita e della poesia, e saranno allora gli inverni dell’Appennino e i treni che conducono lontano, gli affetti e i luoghi, gli incontri, di cui il libro è ricchissimo e i viaggi perché sì, questo è un libro di incontri e di viaggi, ma venato di una radice forte a cui il poeta ama tornare per trarne sempre nuovi significati e approssimazioni, facendo delle nevi di Porretta, ma anche delle sue estati lungo il greto del fiume che l’attraversa, uno dei luoghi incantati della nostra poesia.