Su "Il venditore di incipit per romanzi”
Caleidoscopio rumeno
Gli scrittori rumeni sono in sciopero perché non hanno mai vinto il Nobel... è il punto di partenza di un "metaromanzo” di Matei Vișniec. Quasi un ritorno ai fasti dell'Oulipo
Un gioco di coincidenze, un intreccio curioso tra realtà e fantasia, che forse non sarebbe dispiaciuto all’ingegnoso Raymond Queneau. Il Nobel per la letteratura 2025 è stato assegnato a László Krasznahorkai scrittore ungherese, quasi per niente conosciuto in Italia; è il dato di cronaca.
Gli scrittori rumeni proclamano uno sciopero ad oltranza perché mai uno di loro ha potuto fregiarsi del prestigioso riconoscimento; è la situazione immaginaria descritta ne Il venditore di incipit per romanzi (Matei Vișniec, Voland, traduzione di Mauro Barindi, 368 pagine, 19 Euro), opera appunto di uno scrittore rumeno (nella foto accanto al titolo).
Non è da escludere che, come per i mondiali di calcio, la gelosia alligni tra i paesi dell’Est anche quando si tratta di letteratura e arte. La Romania, in effetti, non è mai stata baciata dalla maggior gloria letteraria. Mentre la Polonia ha fatto incetta di premi, ben cinque, l’Ungheria, con Krasznahorkai, è già al secondo riconoscimento. Persino la Bielorussia e le ex Jugoslavia, lato Bosnia, e la Cecoslovacchia, per la parte ceca, hanno salutato l’affermazione di un loro scrittore.
Ma che c’entra il francese Queneau? Vișniec abbandonò la Romania e si rifugiò in Francia, per sottrarsi alle soffocanti costrizioni del comunismo, circa quarant’anni fa, sulle tracce del connazionale Eugène Ionesco, che aveva attinto gloria teatrale con Il rinoceronte e La cantatrice calva. Era un giovane scrittore, un trentenne che cercava la propria via. E si trovò a respirare l’atmosfera cosmopolita e eterodossa di Parigi.
Si può dire tutto il male del mondo dell’albagia dei nostri cugini d’Oltralpe, come li definirebbe un bravo cronista sportivo, ma non c’è dubbio che Parigi sia davvero una grande capitale intellettuale. Dalla matematica alla filosofia, dalla pittura alla letteratura. Il Ventesimo secolo, ai bordi della Senna, è stato un autentico siècle d’or. C’è bisogno di fare nomi? Buttiamo sul piatto della bilancia il primo pezzo da novanta che viene in mente: Picasso.
Qui entra in ballo Queneau. Nel 1960, l’eccentrico scrittore, che ha già messo al mondo tra altre opere Zazie dans le métro, fonda, con il matematico François Le Lionnais (un binomio solo in apparenza bizzarro), l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle), in pratica un laboratorio sperimentale di scrittura. Gli adepti devono seguire alcune regole ben definite e imprescindibili per elaborare un testo. Possono essere camicie di forza lessicali, sintattiche, fonetiche. Possono essere quegli elaborati rompicapo che sono i tautogrammi o i lipogrammi. Può essere il calcolo combinatorio della matematica, con cui Queneau compose i Cento miliardi di poemi.
La letteratura assume così l’aspetto di un raffinato gioco intellettuale. Ed è un riflesso di questo atteggiamento che si scorge ne Il venditore. Dove il presunto protagonista, impegnato nella scrittura di un romanzo, viene abbordato, e non più abbandonato, da un agente letterario, specializzato nella confezione di incipit, cioè nelle battute iniziali di una narrazione. Nel rimando continuo tra realtà e immaginazione della trama, l’agenzia ha sede nel famoso Passage Verdeau di Parigi, tempio dell’antiquariato e dei libri antichi.
L’agente ha le idee chiare e nessuna intenzione di lasciarsi sfuggire il potenziale cliente. Elenca le sue ragioni: «… la prima frase non è mai innocente. Essa contiene in sé, in germe, l’intera storia, l’intero conflitto». Da bravo venditore, per convincere l’acquirente, sciorina il meglio della sua merce. Da Camus – «Oggi la mamma è morta», Lo straniero – a Kafka – «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K:… », Il processo. Quei folgoranti inizi sarebbe stato lui, il signor Courtois, a fornirli agli autori.
Sul troncone principale, il rapporto dello scrittore con l’agente, si innestano di continuo altre storie, altri potenziali romanzi, in una prospettiva caleidoscopica. Come specifica il titolo originale in rumeno: Roman caleidoscop. Si forma un gioco di intarsio che potrebbe proseguire all’infinito. Uno scacchiere su cui si muovono vari personaggi e dove il confine tra realtà e sogno si fa tenue sino a sparire, come nel complicato rapporto erotico-sentimentale tra il protagonista ed un’enigmatica, evanescente signorina Ri.
È un romanzo sul romanzo, per usare un parolone: un metaromanzo, quello di Vișniec, sulla sua realtà, sui suoi miti. Con un occhio ironico alle presunte regole che lo governano. In primis, appunto, il feticcio dell’incipit, il “la” da cui prenderebbe vita e forma il resto dell’intreccio. Davvero sarebbe bastato a Franz Kafka concepire, o farsela consegnare da un agente letterario, la frase «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K…» per scrivere un capolavoro? O non è forse qualcosa che scaturiva da una sua personale, sofferta elaborazione?
La risposta sembrerebbe ovvia. Ma gli agenti non stanno con le mani in mano. E l’industria editoriale ci ha assuefatti al peggio, che non ha mai fine. Il signor Courtois consegnerà allo scrittore il sospirato incipit, ma saremo ben lontani dalla conclusione, che Vișniec ci offre con un interessante coup de théâtre.
Lo sciopero degli scrittori descritto nel romanzo non porta l’agognato Nobel a Bucarest, ma almeno diventa il traino di un fantastico e redditizio boom turistico, perché gli stranieri convergono a frotte in Romania per poter vedere con i propri occhi uno scrittore non premiato nell’intimità della propria casa. Verrà il loro momento. Ma Vișniec, intanto, può rallegrarsi con il premio per la letteratura europea Jean Monnet, che proprio il suo venditore gli ha procurato