Diario di una spettatrice
Un gioco per Bene
Il nuovo film di Franco Maresco è un pastiche che mescola rabbie e citazioni nel nome di Carmelo Bene. Un film impossibile nel quale il regista, per la prima volta, sfiora la "leggerezza"
Quanti registi italiani hanno giocato con l’idea del film definitivo, quello per il quale sarebbero stati ricordati, il film che proprio per questo non riusciranno a realizzare perché il titolo definitivo non esiste? Per Federico Fellini fu il celeberrimo Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, per Sergio Leone L’assedio (di Leningrado), per Nanni Moretti il musical sul pasticcere trozkista. Per il suo ritorno dopo sei anni di silenzio Franco Maresco decide di giocare lo stesso gioco e l’idea per il film irrealizzabile gliela suggerisce il gigante del teatro italiano Carmelo Bene, uno che non aveva mai nascosto di apprezzare i paradossi di Cinico Tv e l’attività dissacrante della coppia Ciprì e Maresco.
Un film fatto per Bene, con la maiuscola del cognome, è il titolo della pellicola con cui l’iconoclasta regista palermitano si è ripresentato alla mostra del cinema di Venezia a sei anni dal suo La mafia non è più quella di una volta.
Lo dico subito: mi sono divertita, anche se mi chiedo quanti spettatori potrà mai raccogliere un film che è tutto un paradosso, la summa di quel cinema cinico e grottesco che contraddistingue fin dalle origini il regista della coppia trash Ciprì e Maresco, di Cinico Tv e del censurato Totò che visse due volte.
Cos’è questo film che fin dal manifesto si propone come un nonsense, tra il fumetto e il bianco e nero che strizza l’occhio al neorealismo italiano? È un gioco, o almeno io così l’ho visto. Dove il produttore fa il produttore (Andrea Occhipinti, fondatore della “Lucky Red”, numero uno della produzione e distribuzione cinematografica in Italia), il regista amico fa il regista amico (Umberto Cantone, co-sceneggiatore della pellicola), la sceneggiatrice è se stessa (Claudia Uzzo) e lo è il circo degli squinternati comprimari, fino a Maresco che fa Maresco all’ennesima potenza, con lo sguardo spiritato che sbuca tra capelli e barba bianchi da profeta nel deserto.
È chiaro fin dalle prime scene che il regista si è divertito nel gioco che incastra gli spezzoni di tv e di cinema che sono il suo passato dentro il presente delirante delle riprese del film che vorrebbe fare ma anche no e che la produzione gli blocca perché i costi sono fuori controllo se il regista è un ossessivo-compulsivo ecc ecc. Lo spunto di partenza è semplice: Maresco si incarta in un film che dovrebbe raccontare la storia palermitana tra Carmelo Bene e il maestro elementare Gaetano Mascellino e per non ammettere il fallimento sparisce dopo aver accusato Occhipinti di filmicidio. Sulle sue tracce si mette l’amico Cantone, ma i giornalieri che Maresco ha girato in pellicola bianco e nero con costi esorbitanti sono incomprensibili: protagonista è il francescano volante San Giuseppe da Copertino, impersonato da un analfabeta che molto ricorda la “santa pazzia” dell’ingenuo Fra’ Ginepro del film di Rossellini Francesco giullare di Dio.
È il ritorno al sacro di Totò che visse due volte, il fil rouge dell’intera pellicola. Il regista palermitano si autocita e si diverte a evocare film famosi (c’è il corvo saccente di Uccellacci e uccellini di Pasolini) e scene iconiche del cinema: come la celeberrima partita a scacchi tra il cavaliere e la morte nel film di Bergman Il settimo sigillo, solo che a giocare con la signora con la falce è il frate volante che non ha mai giocato a scacchi e la morte si annoia attendendo invano la sua prima mossa.
“Io sono il Carmelo Bene del ventunesimo secolo” proclama il regista ed è una evidente provocazione. Come le stoccate al cinema italiano massacrando Gigi Marzullo e citando le parole sprezzanti di Bene: “Riusciremo tutti a fare i nostri film prima o poi, sapete com’è, e i film sputtaneranno quello che abbiamo scritto e viceversa. Sullo schermo c’è ancora modo di sputtanarsi”.
Alla fine Maresco lascia andare tutto, il circo del cinema che odia e l’orrore e la rabbia che prova “per questo mondo di merda” dove “la tecnologia è la rivincita dei mediocri su chi ha talento”. Il regista guarda la terra fluttuando dall’alto delle nuvole, come il frate volante dall’eloquio sgrammaticato e incomprensibile. E sembra dirci che santi possiamo essere tutti se a volare riesce persino lui, beato improbabile ma finalmente nella leggerezza che non si era mai concesso.