A proposito di "Epiloghi"
Le parole, alla fine
La nuova raccolta di poesie di Evaristo Seghetta Andreoli affronta il tema dei bilanci finali. Quelli, spesso cupi, in cui le domande non sempre hanno delle risposte
La stagione degli epiloghi per ogni essere umano è quella in cui gli eventi tendono in qualche modo a incupirsi, le cose sembrano assumere un nuovo aspetto o solo invitano a guardarle con uno sguardo diverso, in cerca di un particolare, prima sfuggito, che ne dica l’intima natura. Rallenta la velocità delle singole azioni, quasi a voler indicare la vicinanza con un punto d’approdo inevitabile, si diradano i momenti di attesa, le aspettative di qualcosa che verrà. Complessivamente le giornate, per la maggior parte, si consumano in maniera meno appassionata, i passi ci allontanano dai luoghi che sentiamo troppo vitali o ostili.
È questo il paesaggio, in fondo non rassicurante ma disegnato con serena grazia, in cui ci immerge Evaristo Seghetta Andreoli nel suo nuovo libro di versi. Le poesie di Epiloghi (Interno Poesia, € 15) fanno appunto i conti con un presente diventato improvvisamente meno vivido, come ristretto in un alveo minimo che lo contiene senza prospettare possibili vie d’uscita. Anche la memoria, che potrebbe essere se non altro uno strumento di consolazione, tentenna, quasi barcolla, tra la necessità di riportare in vita il passato e la fuga nella dimenticanza. D’altra parte la vita, quando si avvia al suo epilogo, suggerisce Seghetta Andreoli, tende a non raccontare frottole, a non aver bisogno della frenesia della ricerca della verità, a volere piuttosto la semplicità. Anche la poesia si libera del superfluo, si riduce “a corteccia, / all’essenza estrema”. Inoltre è necessario rinunciare, ormai definitivamente, alla messa in scena mondana e brillante di se stessi, e puntare invece a un’ordinarietà dietro cui può nascondersi una scintilla rivelatrice: “Occorre il coraggio di lasciare / alle spalle quel contorno posticcio / e salottiero per giungere al vero, / alla carne, al suo sapore, all’osso”; insomma “meglio la scarna povertà delle parole / di questo vuoto della vanità”.
I versi si soffermano dubitativi su questioni che non possono avere risposta. L’unica certezza è quella di non aver colto la bellezza di certi momenti, quando era possibile trattenere l’attimo, che invece abbiamo lasciato scorrere veloce. Così, di fronte a un amore che riemerge da un tempo sembrerebbe ancora segnato dalle frettolose infatuazioni giovanili, il poeta si rammarica: “Che sciocchi siamo stati, ignoravamo / purtroppo di non essere eterni”.
La prospettiva è un senso crescente di inquietudine, la vertigine del vuoto, l’impossibilità di avanzare con sicurezza (“Procedo così alla meno peggio / o forse arretro verso il vuoto”). Riappropriarsi del passato, attraverso la memoria, vederlo dipanarsi ancora chiaramente dinanzi ai nostri occhi, ci donerebbe almeno in parte quel vigore che sentiamo perduto. Ma troppo è il tempo passato dal quale non riusciamo a ricavare più nessuna immagine, “troppi i miei settembre dimenticati / i miei mesi tutti uguali e confusi”.
Viene in soccorso la natura, che però ostenta indifferenza per i turbamenti e le apprensioni degli umani. L’autore trova lì pace e serenità, vorrebbe vivere in sintonia con piante e animali, smarrirsi in simbiosi con l’ambiente naturale. È una prospettiva però impossibile, finanche le tracce lasciate sul terreno dicono della volontà di comunione e insieme dell’estraneità: “Ora seguo le tracce degli animali selvatici / sul sentiero che sale a perdifiato, / facili quelle dei cinghiali / dei caprioli o delle lepri / […] // Da parte mia lascio impronte / di suole indocinesi / oltre alla punta del bastone / su cui poggio il peso e la speranza / di scuotere il cuore della terra”.
Le poesie che più delle altre riescono a dare consistenza alla materia di Epiloghi e che maggiormente dicono del mondo della campagna umbra spesso presente nelle liriche (Seghetta Andreoli è nato e ha vissuto parte della sua vita a Montegabbione) sono delicati racconti che vedono protagonisti personaggi che l’autore frequenta o ha frequentato, e che vengono indicati con le sole iniziali. Personaggi che racchiudono nelle movenze e nei gesti il segno della precarietà di ogni esistenza e di ogni atto della comunicazione, più evidente quando si giunge al tempo degli epiloghi. È il caso di Ti che “è tutta nei suoi occhi e nello scialle nero” e che “ci osserva dall’orlo del precipizio / e non canta, ora scruta la distanza / che ci separa dalla perdizione”; o di Erre “immersa / nei soliloqui con lo sguardo volto / a seguire l’irrazionale volo / del moscone”. Struggente e ricca di pathos la poesia dedicata a Zeta, che finisce per riassumere il tema di fondo del libro. Zeta è da un po’ che “usa un lessico fragile, / un linguaggio che sfugge alla ragione”. Questa specie di afasia di Zeta sembra anticipare la sorte che attende la sua voce e in fondo quella di tutti gli umani: “Ormai è un chiaro dato di fatto, / la sue parole, le tanto care / parole, sussurrate o soffocate / in un soffio di voce, già raggiungono / il non luogo, lo spazio del silenzio / assoluto, regno d’inesistenza / la nostra fermezza già vacilla”.
Chiare e dirette, lapidarie, le parole di Effe, che dice al poeta: “perderemo la nostra identità, / la lingua, la memoria di ogni cosa, / l’udito, il tatto, il gusto, l’odorato / la vista, niente più calore o freddo, / il passato cancellato, privati / del futuro, perderemo il sorriso / ma non del tutto e rimarrà sul viso / una smorfia, un ghigno duro”.
Evaristo Seghetta Andreoli ha fatto studi classici e giuridici ed è stato bancario. Il suo esordio in volume, piuttosto recente, risale al 2013, i suoi ultimi libri, apprezzati da critica e pubblico dei lettori, sono In tono minore, edito da Passigli nel 2020, e Il geranio sopra la cantina, Puntoacapo 2023.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.