Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Elisa e il Male

“Elisa", il nuovo film di Leonardo Di Costanzo, è una parabola su quella “corda pazza” che spinge ciascuno alle scelte più estreme. E poi a rimuoverle da sé

Non è un film sulla banalità del male. Al contrario Elisa, la nuova pellicola del regista Leonardo Di Costanzo appena presentata in concorso a Venezia, racconta il lato oscuro, la “corda pazza” direbbe Pirandello, che è dentro ciascuno di noi e che un giorno, quando nessuno se l’aspetta, ci può far compiere l’irreparabile, uccidere pur di non rivelare a chi ci è più vicino la nostra paura più grande: dover ammettere che abbiamo fallito.

Chi ha letto il romanzo di Emmanuel Carrère L’avversario comprenderà facilmente le ragioni che hanno portato Elisa, una giovane donna normalmente intelligente e benestante, a strangolare e bruciare la sorella maggiore e a tentare di fare altrettanto con la madre: perché Elisa, come il protagonista di Carrère Jean-Claude Romand che fece strage della sua famiglia (libro e film sono entrambi ispirati a vicende reali), non poteva permettere ai suoi di scoprire il proprio fallimento nell’azienda di famiglia e le menzogne che lo avevano mascherato, lei a cui nessuno ha mai creduto fin da bambina, lei che ha sempre affidato agli altri la propria vita, lei un giorno decide che non ne può più. E quando commette l’orrore, tutto l’orrore necessario a far tacere chi poteva smascherarla, arriva finalmente il silenzio, “una pace così non l’ho provata mai più”.

Di Costanzo ripropone allo spettatore un soggetto che era già stato al centro nel 2021 dell’ottimo Ariaferma, declinandolo in modo totalmente diverso: là c’era un carcere ottocentesco destinato a chiudere che disegnava il palcoscenico di nuove dinamiche relazionali tra detenuti e agenti di custodia. In Elisa il carcere è invece uno spazio aperto tra i boschi di un cantone francofono al confine tra Svizzera e Italia, un’alta recinzione invalicabile traccia la soglia tra il dentro e il fuori (la prima scena in cui la protagonista arriva fino a quella recinzione e guarda oltre, verso la libertà che le è negata, mi ha ricordato il romanzo La parete di Marlen Haushofer), tra gli alberi minuscoli cottage in legno ospitano le detenute inserite in un centro modello di detenzione e riabilitazione che lavora in stretto contatto con i docenti di un’università vicina. Tra questi c’è un criminologo di fama, il professor Alaoui, che avvia una ricerca per indagare le ragioni dell’atto che ha condotto quelle donne in carcere, evitando sia una improbabile giustificazione sia una condanna pregiudiziale, “perché chi ha ucciso ha diritto a non restare per sempre intrappolato in quel momento”.

È così che incontra Elisa Zanetti, condannata a vent’anni per l’omicidio della sorella Katia e il tentato omicidio della madre, ha scontato metà della pena e lavora nella caffetteria della struttura, apparentemente pacificata col suo passato: perché Elisa di quel “fatto” non ricorda niente, non ha mai ricordato niente, dice, ha vissuto il processo e la condanna come se la cosa non la riguardasse, una amnesia totale riconosciuta dagli stessi giudici. Ma è davvero così?

La donna accetta l’invito di partecipare alla ricerca. E a poco a poco riaffiorano nella sua mente i particolari sempre più nitidi del crimine che ha commesso. E se l’amnesia, o più probabilmente la rimozione, le aveva permesso per dieci anni di attribuire l’orrore a un solo momento incontrollato di rabbia, nei colloqui col criminologo affiora un’altra realtà: è la paura all’origine di tutto, la paura antica di dover riconoscere in famiglia il proprio fallimento, la paura assoluta capace di premeditazione.

I dialoghi si susseguono in bilico tra rimozioni e rivelazioni, Elisa non cerca il perdono come non accetta la semilibertà, è paralizzata dalla colpa ma non sembra neppure pentita, confessa di pregare ogni notte perché la sorella fosse morta quando le ha dato fuoco. Nello sguardo del criminologo come in quello dello spettatore si insinua il dubbio che la donna sia capace di manipolare gli interlocutori, del resto lo ha già fatto coi suoi familiari, verità e bugie, luce e ombra restano impastati dentro di lei e niente appare nitido. Proprio come la fotografia del film firmata dall’ottimo Luca Bigazzi e dominata dai grigi della neve sporca in cui sono immersi paesaggio e personaggi.

La forza della pellicola, in cui non mancano situazioni ripetitive che ne rallentano il ritmo, sta in gran parte nell’interpretazione della protagonista Barbara Ronchi, il suo viso scavato e il suo sguardo sfuggente e colpevole interrogano lo spettatore nel territorio sensibile della vergogna e del pentimento, del riscatto e del perdono. Quel perdono che non può concedere Laura, madre di un ragazzo ucciso per niente da una banda di balordi, interpretata da una commovente Valeria Golino. “Non mi è servito a nulla guardare in faccia il Male”, confessa al criminologo. Perché la banalità del male, quella sì, resta incomprensibile.

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