A quattro anni dalla morte dello scrittore
Scrivere e volare
La metafora del volo, per Daniele Del Giudice, rappresenta la libertà creativa. La scrittura, insomma. A differenza di Calvino che la usava per togliere opacità al reale
Tra le pagine più belle di Daniele Del Giudice che mi è capitato di leggere ci sono quelle legate al volo. Ogni volta che un testo mi spedisce tra le nuvole mi assale la tentazione di farne una metafora della vita, non riesco ad esimermi dal rendere simbolo un’azione lontana da me tanto quanto il cielo dall’asfalto. Volare mi ispira, gli aviatori superano la forza di gravità, ipostasi di ciò che mi atterra, mi abbassa, mi impedisce ogni forma di acrobazia esistenziale.
Apro le Lezioni americane, Calvino mi dà ragione: «Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica».
L’autore delle Città invisibili dichiara che l’unico modo per oltrepassare «l’opacità» è guardarla da una prospettiva differente, grazie alla quale l’ariosità allargherebbe lo sguardo. Calvino cita Perseo che volteggia coi sandali alati tenendo in mano la testa sanguinante di Medusa. Accolgo serenamente questo augurio di fine millennio, eppure il sorriso che ho disegnato in volto viene cancellato da Staccando l’ombra da terra di Daniele Del Giudice, un libro che indaga la natura più oscura ma anche più reale della conquista celeste.
In un commovente capitolo del romanzo lo scrittore narra la morte di Bruno, suo istruttore di volo. Fino al punto di rugiada comincia così: «Ti perdesti una mattina in volo come ci si perde nella vita, senza rendersi conto che ci si smarrisce, scivolando a poco a poco nel non trovarsi più; prima la campagna non fu quella che t’aspettavi, poi il fiume che doveva arrivare non arrivò, infine la foschia da caldo che vaporava sulla Padania si cristallizzò in una opacità densa e più consistente […]».
L’aeroplano attraversa una fascia di freddo che ghiaccia la struttura fino a farla precipitare. Leggendo il libro sono spettatore di una metamorfosi, da oggetto volante, leggero, a ghiacciato e pesante, pronto a schiantarsi. Eppure questo passaggio non crea sgomento, sembra disperdersi in modo naturale, drammatico, ma non tragico. Il libro ha tono elegiaco, la voce fragile ma serena di chi dichiara la propria sorte senza maledirla, contemplando la picchiata con amarezza sgombra da rabbia.
Ogni aviatore aspira a conoscere tutto, durante il decollo viene assecondato dalla torre di controllo ad elencare tutti gli elementi necessari alla riuscita della partenza. Del Giudice lo definisce un «piccolo libro di preghiere»: «Master switch? On. Anti collision beacon? On. Flaps? 10 degrees. Parking brakes? On. Radios? Tuned and checked». Il pilota ha ripetuto quei gesti più di quanto li possa contare, fino a renderli movimenti involontari della memoria muscolare. Eppure, alle volte, tutto questo non basta. Interviene la casualità a scardinare l’ossessiva preparazione dell’aviatore. Bisogna conoscere per risolvere l’improvvisa insorgenza dell’errore, che colpisce il pilota quando meno se lo aspetta. Anzi, l’utopia è la preveggenza, un volo in cui tutto è stato considerato ed ogni movimento è riconosciuto perfettamente da chi lo comanda, senza sbavature, ma soprattutto senza imprevisti. Proprio in questo punto si intromette la mia tentazione di accostare vita e volo, di applicare le manovre di uno a quelle dell’altra.
«Ogni sera io esco per ultimo dall’aeroporto portandomi via quel che durante il giorno ho ricavato da questa pratica precipitante della caduta e del disequilibrio, o se preferisci dell’equilibrio in un margine estremo. Vorrei poterlo applicare altrove, manovre nella vita, ma potrei mai parlartene, Bruno? e come?». Del Giudice non cela la sua perplessità. Aver volato non lo ha affrancato dalle domande che lo assillavano in terra. La voce tremante suggerisce che non è pienamente possibile far compenetrare la natura del volo in quella della vita, per il semplice fatto che le due sono separate dal margine di irreversibilità: riconoscere l’errore, caratteristica principe per decretare pronto un pilota, non lo esime dall’ineluttabilità, né lo salva da un’altra, più tragica, possibilità di sbaglio. Laddove nella vita l’errore non costituisce per forza un fallimento irrimediabile, nel volo questa ipotesi di redenzione, questa seconda possibilità, non esiste. Per questo, ogni volta che mi sorprendo volare con la mente, dai miei pensieri si allunga l’ombra della realtà, non potendo che domandare a me stesso: starei meglio, in aria? Davvero sarei in grado di guardare la vita da una prospettiva differente?
Del Giudice parla di «visione periferica»: «In volo, adesso, mi riesce bene, ma nella vita, Bruno? io continuo a guardare di petto, in modo frontale, restando schiacciato dalla visione, fissandola attonito, così che una sola scena o un ricordo o un’ossessione ingombra tutto il mio campo visivo; da qualche parte c’è sicuramente una periferia dello sguardo da dove tutto può ricondursi alla sua misura, una manovra degli occhi che aggira e rimette in proporzione, ma per me è così difficile trovarla». Ancora una volta, non è possibile sovrapporre vita e volo, nemmeno sulla questione cruciale dello sguardo. Del Giudice ribadisce più volte, nel libro, che la sua attrazione per questa pratica nasce dall’esigenza di rifarsi l’occhio, ma infine osserva che neppure le due visioni sono aderenti, una è frontale, l’altra laterale, l’una si schianta contro l’oggetto, l’altra lo sorvola. Me lo ripeto quando le giornate non offrono soluzioni agli incidenti che le travolgono: la vita sta nello sguardo, basta trasformarlo per cambiare ciò che compare attorno. Ma ne sono davvero capace? Forse questo balzo interpretativo non mi corre nelle gambe, non ho muscoli abbastanza allenati per concedermi la volata.
Del Giudice conosce le dinamiche del volo, le ha vissute, ne ha fatto cicatrice, perciò non le idealizza, non le vive nella mente. Nel capitolo E tutto il resto? lo scrittore si proclama indifferente alle immagini mitiche di Perseo, Bellerofonte, Icaro. «No, il mito non c’entra nulla. Il volo ha avuto a che fare col mito finché non è stato umanamente realizzabile». Poi aggiunge: «Io, come aeroplano, appartenevo al secolo delle traduzioni in cose, il secolo più realistico che mai si sia visto, un secolo che solidificava le fantasie in oggetti.»
Calvino vorrebbe usare il volo come metafora della vita, mentre Del Giudice annuncia l’impossibilità di questo gesto. Applicare la prospettiva di uno sull’altro significa inevitabilmente mal interpretarli, perché il volo, da quando l’uomo ha potuto compierlo, ha svelato una natura del tutto estranea alla vita. Vorrei seguire Calvino nel suo mito di leggerezza, ma risuonano altre voci che mi inchiodano alla sbarra con questa domanda: seguo l’immaginazione, consapevole del limite, o il reale, da cui mi sento limitato? Di fronte a questo dilemma realizzo che la maniera di interpretare il volo determina la postura esistenziale che desidero assumere, una più immaginifica, l’altra più pragmatica.
Mentre penso e scrivo, il libro esaurisce le sue pagine. Ancora non so che farne della confusione che ho accumulato. Non posso convincermi che volare sia soltanto volare, che nessun significato si nasconda nell’aeroplano: oltre l’evidenza, oltre l’esperienza, si apre un varco che non resisto a prendere. Questa ostinazione mi fa pensare che il segreto dell’arte sia trovare la vita, nella sua forma più necessaria e intima, persino laddove la sua presenza risulta impossibile. Perciò mi assale il sospetto che Del Giudice abbia suggerito un paradigma diverso della sua metafora: per il volo, il termine di paragone non è la vita, ma l’arte. Nel caso dell’autore di Staccando l’ombra da terra, è la scrittura il mezzo con cui si può cogliere la spinta del vento, spiegare le ali, toccare il cielo alzandosi sulle cose del mondo, alleggerendosi della loro pesantezza. È nel cielo creativo che possiamo volare verso un’altra vita.