A due anni dalla scomparsa
Kundera, l’esule
Enrico Galimberti ha scritto una biografia di Milan Kundera concentrando l'attenzione sulla sovrapposizione tra vita e letteratura. Una condizione dettata dal primato dell'esilio
Nei giorni scorsi Transeuropa, nella collana Studi e Ricerche, ha mandato in libreria la prima biografia italiana di Milan Kundera, praticamente allo scoccare del secondo anniversario della morte dello scrittore ceco: Enrico Galimberti, L’esilio di Milan Kundera a Parigi, Transeuropa Edizioni, 146 pagine, 15 Euro.
Milan Kundera, già pubblicato in patria, col romanzo Lo Scherzo attira l’attenzione gelosa e vendicativa, dopotutto cieca, del regime: un libro che apertamente presenta una vicenda paradossale in cui un regime malato vuole vedere a tutti i costi un attentato alla propria reputazione, se non peggio, nello scherzo innocente, goliardico, di uno studente.
Senza tante lagne, nel 1975 Milan Kundera lascia Brno, città che è rimasta nel cuore a lui e a sua moglie, l’inseparabile Vèra Hrabanková, per accettare una docenza in letterature slave all’università di Rennes, e prendere il largo – a differenza di Vaclav Havel, il poeta diventato presidente della Repubblica Ceca molti anni dopo, che è stato dissidente in patria, Milan Kundera sceglie di essere esule, non resta a lottare.
Il significato in apparenza controverso di questo esilio ed i suoi esiti sono il senso di questo libro in cui Enrico Galimberti, nella forma del saggio narrativo (un bell’ibrido, molto documentato e anche colmo di passaggi ricostruiti intuitivamente sotto forma di dialoghi scambi e conversazioni, ma non solo), ripercorre la vicenda letteraria umana e politica di un grande autore che amava proclamarsi europeo.
Nel libro tutta la vicenda di Milan Kundera è contenuta tra questi due passaggi:
- «Vivere nella verità, non mentire né a sé stessi né agli altri, è possibile soltanto a condizione di vivere senza pubblico” [per noi oggi qualcosa di inammissibile, ndr] “Nell’istante in cui qualcuno assiste alle nostre azioni, volenti o nolenti ci adattiamo agli occhi che ci osservano e nulla di ciò che facciamo ha più verità» [L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984];
- «Il romanzo è opera dell’Europa; le sue scoperte, pur se realizzate in lingue diverse, appartengono all’Europa intera» [L’arte del romanzo – L’Art du roman. Essai, 1986] – Kundera tira dentro Kafka e Broch, Tolstoj e Gombrowicz, Flaubert e Musil, e non manca di dire che questi autori più o meno consapevolmente discutono l’idea stessa e la struttura del romanzo.
Kundera mette al centro della sua esperienza letteraria la sua stessa vita di scrittore che è uomo, cittadino, figura etica, e fantasma, dopotutto. Cioè vive coscientemente certe sue fantasie infantili, ci fa notare il biografo narratore Enrico Galimberti, emerse durante una conversazione con Philip Roth: il desiderio di sparire!
L’erranza di Kundera e la sua flâneurie bohémienne spingono a una corrispondenza curiosa col Robert Walser di La passeggiata. Nel rileggere quel racconto lungo o romanzo breve del grande scrittore svizzero di lingua tedesca appare subito chiaro che quel palinsesto dinamico, segnato da insospettabile, quasi vichiana, discontinuità, è la metafora limpida del ruolo che ha l’esperienza nella vita di un individuo – specie se si considera quanto quel condursi solo in apparenza vacuo e vano conferisca sale a una pietanza spietata e spesso amara quale è il vivere. Se poi a camminare aperto alle novità e al gusto dell’incontro è uno scrittore il discorso acquista valore inaggirabile. E se c’è un’erranza che segna una vita, specie di uno scrittore, questa è l’esilio (per niente una passeggiata, dopotutto!).
Per Milan Kundera però l’esilio è stata una condizione perfetta, osserva Galimberti. Il modo di non essere visto, di non essere sorvegliato, di poter scomparire, di poter vivere nascosto secondo il noto detto epicureo, Lathe Biosas (Λάθε βιώσας).
Questo non ha voluto dire rinunciare a intervenire per la libertà con la scrittura, come è noto distribuita tra romanzi, saggi sul romanzo, pièces teatrali. E non ha voluto dire rinunciare a un’idea di vita cioè di esistenza personale e sociale da intendersi come scherzo e come oblio (ricalchiamo qui un suo celebre titolo).
Proprio come il Robert Walser de La passeggiata, Milan Kundera (inseparabile però dalla moglie Vèra), armato solo del suo senso dell’umorismo quasi britannico (slavo, in realtà), ha lottato in modo quieto e fermo per ottenere riconoscimento al suo essere (come Walser, col quale in funzione di mediatore lo connette nientemeno che Franz Kafka) uno scrittore di area mittel-europea, e non esponente dell’Est Europa, come liquidatoriamente si tende a rubricare chi provenga per esempio da Praga come Kafka o da Brno come Kundera appunto. La Cecoslovacchia sovietizzata da cui Kundera è stato cacciato nei fatti, dove dai primi anni Settanta i suoi libri sono stati ritirati da tutte le librerie e da tutte le biblioteche per l’inaudito reato di lesa maestà verso il regime (costato la vita allo studente Jan Palach e l’esilio a Alexander Dubček nella Primavera di Praga poi stroncata il 21 agosto dello stesso 1968 col Patto di Varsavia), viene in genere acquisita all’est europeo, ma ha una identità mitteleuropea – che, per questo anche si è battuto scrivendo e interagendo a Parigi con l’istituto di cultura ceca Milan Kundera, annovera scrittori plurilingue (anche di questo Franz Kafka è un esempio limpido: lo scrittore praghese, ceco per nazionalità, ha scritto in tedesco).
Il tema dell’oblio così caro a Kundera di nuovo crea una corrispondenza col Walser de La passeggiata là dove lo scrittore svizzero tedesco racconta d’essere sul punto di smarrirsi ed esprime il desiderio di scomparire, tanto che camminando camminando in una gelida notte nel cuore dell’inverno cade nella neve per non rialzarsi mai più.
Dal racconto di Enrico Galimberti cogliamo bene che Milan Kundera era un cultore del sottotono. Accettando di spostarsi in Francia Kundera non solo si toglie dal fuoco della dissidenza ma si rifugia in una marginalità piena di dignità e di autorevolezza.
Bisogna dire che a chiamarlo a Parigi non fu solo l’Università di Rennes cui seguì poi l’incarico all’EHESS (Scienze Sociali) nel cuore di Saint Germain des Près ma anche l’editore Antoine Gallimard che da subito decise di farlo tradurre in francese, lingua nella quale a un certo punto Milan Kundera se la sentirà di scrivere tre o quattro libri. Gallimard lo aprì poi all’opportunità di altre edizioni di prestigio e di grande interesse in Spagna (Tusquets) e in Italia (Adelphi). Kundera fu tra i pochi scrittori viventi ad esser pubblicato in una specie di Meridiano o raccolta di tutte le opere, con scarno apparato critico e bibliografico (questo fu criticato, però), nella collana di Gallimard, La Pléiade (come lui solo Ionésco e la Yourcenar, e pochissimi altri).
Smarrirsi o disunirsi: ecco un punto interessante. Scomparire e vivere nascosto è stata la risposta di Milan Kundera, che in piena libertà non ha esitato a coltivare un’idea di vita come scherzo e l’oblio come condizione esistenziale da coltivare e curare. Da qui la sua allergia, non tanto dichiarata quanto attuata nei fatti, ai premi e alle adunate pubbliche o ufficiali, che ai suoi occhi erano situazioni ridicole. Il ridicolo, tratto in fondo molto francese, non più barocco ed eufuista ma già asciutto e illuminista, è un elemento ricorrente in tutta la sua letteratura, anche, o forse di più, nella saggistica, e nel teatro in cui Kundera riprese anche un testo di Diderot.
Un po’ come il Walser de La passeggiata, Milan Kundera, da improvvido borghese, ha potuto essere scrittore eccellente e libero. Si è tenuto stretto, oltre a Vèra, il suo editore, Antoine Gallimard, il suo traduttore, François Kérel, mentre è stato sempre diffidente verso il Bernard Pivot di Apostrophe, e verso i critici, pettegoli e umorali. Ha vissuto il proprio esilio nella città (Parigi) che non tradisce mai tra Montparnasse e Saint Germain des Près eleggendo a domicilio letterario il ristorante Récamier dove informalmente incontrava colleghi scrittori e emissari della cultura ceca prima di invitarli a bere un buon bicchiere su a casa.
Come si infila in tutto questo l’accusa che gli fu rivolta da alcune critiche femministe, soprattutto americane, di maschilismo e misoginia? Con la sua grazia di intellettuale in dolcevita (le classiche maglie a girocollo indossate sotto le giacche, ad esaltare lo sguardo chiaro e incisivo fino alla fine), con la sua eleganza, col suo stile asciutto e raffinato, Kundera si limita a definire i due fenomeni aggiungendo che uno scrittore non sposa le idee dei suoi personaggi, le indica e le mostra proprio per denunciarle. Anche per questo l’annosa questione dell’autobiografismo non lo toccava affatto e non è ad essa che si può rimandare il fatto che a lungo, proprio stando a distanza dal proprio Paese, Milan Kundera abbia raccontato solo il proprio Paese.
Viceversa fondamentale per lui è stata la presenza non solo angelica ma pro-attiva di sua moglie Vera, sodale con lui in tutto salvo che nella nostalgia della città di Brno – lei avrebbe voluto tornare, lui lo escludeva del tutto, per poter essere scrittore super partes e soprattutto super patrias. Enrico Galimberti deve anche al fortuito incontro con Vèra, un po’ in extremis (lo scrittore era morto da poco), la spinta a formulare, di Milan Kundera, questo ritratto molto completo e attraente.