Nicola Fano
Ricordo di un maestro del teatro

Il gioco di Bob Wilson

Qual era il "metodo" di Bob Wilson? E perché la sua drammaturgia delle immagini è così importante anche per il teatro di oggi? Qualche considerazione su una lezione da non dimenticare

Era “contemporaneo” il teatro di Bob Wilson (il grande regista americano morto ieri a 84 anni)? La scomparsa di un maestro (qual era Bob Wilson) impone questa domanda, prima di tutte, sulla sua lezione. Perché oggi, perniciosamente, si gioca molto con l’aggettivo “contemporaneo” facendone uno spartiacque: di qua i buoni (quelli che saprebbero raccontare il sentimento del tempo) e di là i cattivi (quelli che saprebbero coniugare solo un teatro “vecchio”). Ebbene, che Bob Wilson fosse un maestro, direi che non ci siano dubbi; né possono essercene sulla sua capacità di emozionare lo spettatore con la specificità del linguaggio teatrale puro. Il quale, come è noto, è fatto da molti linguaggi in equilibrio tra loro: il corpo dell’attore, la parola, la musica, lo spazio. Nella fattispecie, molto spazio, molti corpi d’attore, molta musica, poche parole, pochissime proiezioni e ancora meno tecnologia, elementi cui oggi, invece, si attribuisce l’unica salvifica via alla contemporaneità. Sicché, tornando alla domanda iniziale: il modo in cui Bob Wilson poneva in equilibrio i linguaggi del teatro e il la forza emozionale che tutto questo produceva nelle platee di tutto il mondo era “contemporaneo”? Che cosa raccontava, di noi?

«Il mio è un teatro evocativo, nel senso che la storia è raccontata dal “già conosciuto”. Quando si alza il sipario il dramma (nel suo senso tradizionale) è già compiuto. E l’attesa del pubblico si sposta su emozioni più universali, non necessariamente legate a un linguaggio parlato». Così mi disse Bob Wilson un’infinità di anni fa (era il settembre del 1983) parlando della sua propensione per storie e personaggi popolari. E, spiegando il suo apparente scarso interesse per un puro teatro di parola, aggiunse: «Ho realizzato spettacoli dove gli attori parlavano in inglese in Paesi dove la lingua inglese è praticamente sconosciuta: eppure il risultato è sempre stato ottimo. Preferisco far parlare le immagini, gli equilibri fra luci e musica… All’inizio della mia carriera, poi, avevo trovato un sistema ancora più efficace. I testi erano fatti soprattutto di espressioni universali, tipo “Ok”, “mhm”, “frr”: rumori, più che parole. Ma quel vocabolario, chiaramente, s’è esaurito presto, e così è diventato sempre più difficile trovare termini facilmente comprensibili da tutti. Anche per ciò, in fondo, nel mio nuovo spettacolo gli attori recitano in almeno una decina di lingue». Il suo “nuovo spettacolo” in questione era the CIVIL warS (nella foto sopra), un kolossal di quindici ore e una miriade di enti produttori allestito in occasione delle Olimpiadi di Los Angeles del 1984.

Voglio dire che Bob Wilson ci ha insegnato che l’emozione viene prima del metodo e che la forza del teatro è nella sua capacità di mettere in equilibrio i linguaggi che lo compongono. Il teatro basta a sé stesso: non ha bisogno di scimmiottare altri linguaggi; se lo fa, ha già perso.

Qualche anno dopo, Bob Wilson mi spiegò il suo metodo: «Detto molto semplicemente cerco di lavorare collegialmente con tutti coloro che “fanno” uno spettacolo. Dai tecnici agli attori, ai cantanti, ai musicisti, agli organizzatori. Tutti possono, e in parte devono contribuire all’elaborazione del progetto. Prima di iniziare le prove di uno spettacolo ci mettiamo di fronte ad una grande lavagna; io disegno le scene così come vorrei realizzarle, poi ognuno le modifica in base alle proprie esigenze tecniche o espressive. Il nostro è un lavoro in un certo senso artigianale: e spesso è molto più bello costruire una sedia, per esempio, piuttosto che comprarla». Questo fu chiamato teatro totale. Perché tutti contribuivano alla creazione e tutti i linguaggi erano ammessi, purché il prodotto fosse in equilibrio. Il quale equilibrio, beninteso, era garantito dalla sensibilità e dalla sapienza scenica del regista.

Pochi fautori del cosiddetto “teatro contemporaneo”, immagino, avranno visto Einstein on the beach (nella foto accanto), spettacolo di cinque ore che girò il mondo per molti anni dopo il debutto ad Avignone (era il 1976). Non c’era testo: si era agli albori di quello che poi sarebbe diventato il teatro-danza (il talento di Pina Bausch non era ancora esploso). Luci gelide (poi divenne il segno distintivo di Bob Wilson), perfezione geometrica delle immagini e minimal music di Phil Glass. Proprio nel rapporto tra musica e immagini c’era la malìa di quello spettacolo. Glass divenne celebre per le sue armonie ossessivamente ripetitive: una tessitura che poteva condurre alla trance (scuola teatro balinese passando per Artaud) ma che l’intelaiatura creativa delle immagini di Wilson riportava alla concretezza dell’emozione teatrale. Ricordo la lucidità – mista alla tipica, caratteriale invidia – con la quale anni dopo Giorgio Strehler mi parlò di quello spettacolo e in specie di quell’uso delle luci che evidentemente Bob Wilson aveva tratto anche dalla lezione strehleriana e dalla sua passione smodata per le luci che non producono ombre.

Qualcuno, invece, avrà visto Odyssey che Bob Wilson presentò al Piccolo di Milano nel 2015. Stesse gelatine blu, stessa perfetta geometria delle immagini, ma in primo piano c’era una riscrittura moderna del poema omerico: la parola aveva riacquistato peso specifico, anche se gli attori erano stati indotti a trattare il mito di Odisseo come una sequenza di “Ok”, “mhm”, “frr”… Solo un anno dopo, 2016, vidi a Parigi, al Théâtre du Châtelet, un suo geniale Faust (nella foto sopra) allestito con il Berliner Ensemble (di cui era direttore Claus Peymann, all’epoca, altro genio del teatro): stavolta il testo goethiano era abbastanza riconoscibile, salvo che lo spettacolo era montato come un’opera rock nella quale a incarnare la dannazione di Faust c’era un riprodursi costante di mille copie di Margherita. Come per descrivere un mondo che scambiava le proprie personali ossessioni con un anelito di conoscenza. Vizio ancora oggi ricorrente.

Insomma, in conclusione, direi che la grande lezione di Bob Wilson è stata quella di spostare l’attenzione dalla parola all’emozione, apparentemente senza direttamente curarsi del peso specifico della drammaturgia. Semmai, la sua si potrebbe chiamarla drammaturgia dei volumi e della luce. E lo fece proprio quando i grandissimi – Giorgio Strehler, Peter Brook – concentravano il loro lavoro sulla lettura critica dei testi. Ecco, di fronte a questi due immensi maestri – sul cui genio la mia generazione si è formata – Bob Wilson ci parve un bambino giocoso. Dispettoso e rigoroso al tempo stesso. Eppure un bambino che si divertiva. Sempre. Girava costantemente in maniche di camicia, con un mazzetto di matite nel taschino; e quando doveva spiegarti qualcosa, prendeva un lapis e disegnava, dovunque gli capitasse. È contemporaneo, tutto ciò?


Tutte le fotografie sono tratte dal sito www.robertwilson.com

 

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