A proposito de "Il padre sulle spalle"
Il mondo dei padri
Il nuovo saggio di Giorgio Ficara analizza il rapporto (sempre conflittuale) tra padri e figli in letteratura. Mettendolo a confronto costante con la vita reale
Nonostante quel che si potrebbe forse superficialmente pensare, il libro di Giorgio Ficara (Il padre sulle spalle. Debolezza del patriarcato in letteratura, Einaudi, 194 pagine, 17 Euro) non è un libro di divagazioni a partire da spunti letterari o momenti sia pure di importante letteratura. È invece un libro in cui alcuni temi e concetti fondanti si incrociano e si confrontano. A confrontarsi sono le opere e i loro autori vivi, la dualità padre figlio, intrecciata alla figura dell’inetto sullo sfondo, il confronto con altre interpretazioni di quelle opere. A questi si aggiungono temi affioranti come la scelta, il caso, il destino, la religiosità, la grazia, l’assenza; o il tema della solitudine, per evocare un luogo frequentato da Ficara per quanto riguardava la letteratura dei primi secoli (in un saggio di recente ripubblicato).
Dall’abbandono del padre (padre abbandonante) con la morte, che ne perpetua la presenza, di Anchise che lascia Enea a figlie che rinunciano a essere, nel nome del Padre (Weil) a padri che consentono di essere, solo se la figlia vi rinuncia (Gertrude) ecc. O morte dei figli, come nel caso di Leopardi: il figlio Giacomo che dà commiato a quel Monaldo che tanta critica (bisogna dire, anche Moravia, che ricordo io, non Ficara) ci ha abituati a guardare come una figura oscillante fra imbecillità e presunzione (Moravia, appunto: «Monaldo non sembra rendersi conto che tutti, anche i più inetti e sprovvisti, anzi soprattutto questi, hanno nel loro intimo una voce che gli sussurra: “Tu pensi e vedi meglio di quelli”; e che la forza dell’animo consiste proprio nel mettere a tacere quella vocetta indiscreta»; che resta comunque una bella descrizione, anche di padri) e che nella fitta struggente ricostruzione epistolare di Ficara assume una dimensione paterna protettiva, che scivola nella figura materna e la sostituisce. E non è certo l’unico triangolo che va formandosi nelle dinamiche fra persone e fra personaggi: è anzi la costellazione almeno a tre la costellazione che si ripresenta davanti agli occhi. Le figure polari e le figure di mediazione cambiano, sfumano, si rovesciano, si accostano, si respingono, si sovrappongono. Certo Ficara non la pensa come il pur brillante Recalcati, che in un libro a mio parere sbagliato fa prevalere la chiave sociologica (ultimi decenni) sulla psicanalitica, ha decretato la morte del padre che, vuoi per ontogenesi vuoi per filogenesi, sembra in perfetta salute. Difficile, forse (forse) sbagliato chiedersi a quale scuola l’autore appartenga, certo si confronta con letture jungiane (per Omero), freudiane, lacaniane; ma forse faremmo prima e meglio a parlare di indagini nell’immaginario, del quale Ficara saggia le latitudini (viene da dire, in linea con il suo maestro Getto, acutissimo in questo, anche se la presenza di Bloom non può essere negata).
Quello di Giacomino e Monaldo non è l’unico caso di rovesciamenti, in questo libro. È semplicemente quello centrale, il doppio snodo narrativo di acmè e ribaltamento dei ruoli precostituiti, in un libro che sembra fatto di schegge, e invece ha una narrazione a snodi ravvicinati (densa come la sua lingua, tendente alla poesia). Qualche esempio. Della struttura. Manzoni prima di Leopardi: così possiamo fare propria la lettura che del mondo dei Promessi sposi ha fatto Leopardi. La cinematografia, inserita, mi pare, implicitamente nelle pagine di Leopardi, che sottintendono (non obbligano!) che il lettore possa aver visto le letture cinematografiche del poeta di Recanati; e sùbito dopo nella lettura kubrickiana di Barry Lyndon ecc.
Autori vivi, dicevo. Sì: non ci confrontiamo con testi, ci confrontiamo con situazioni, situazioni articolate, incontri, abbandoni, morti – che vengono messe davanti ai nostri occhi da uomini in carne e sentimenti.
Anche se la dualità padre figlio presuppone in un’impostazione logica che non può non ricorrere alla tradizione di Aristotele, Hegel, Sartre ecc. della dialettica servo-padrone ecc. di questa profonda dialettica Giorgio Ficara scruta con un occhio sprofondato in quella superficie luminosa come un diamante i dettagli, gli sguinci., le ombre, i brillìi; il diamante viene poi rovesciato, se ne scruta l’altro lato miracolosamente identico e diverso. Un esempio tra i più trasparenti. Nella poesia di Giudici Piazza Saint Bon, un padre viene aggredito verbalmente in mezzo alla piazza da un creditore in presenza del figliolo e il bambino un po’ si distacca dal padre un po’ lo difende: “Rinnegare il padre, tuttavia, moltiplica ad infinitum per il figlio la solitudine prodotta dalla sua assenza o dal suo crollo sociale”. Un esempio fra i tanti, scelto perché evoca anche quel tema della solitudine che aveva segnato gli esordi di questo saggista (oramai professore emerito; a proposito, la miscellanea in suo onore è un’opera collettiva splendida, caso più unico che raro nel caso delle miscellanee: Letteratura permanente. Poeti, scrittori, critici per Giorgio Ficara, a c. di C. Fenoglio, R. Palumbo Mosca, I. Candido, e D. Santero, Milano, La Nave di Teso, 2022).
Del resto Ficara è uno di quei critici che mettono la letteratura a reagire con la vita, profondamente, dolorosamente. La dialettica degli opposti non viene giocata nei cieli dell’astrazione ma nella carne del reale.
Anche per questo mi ha toccato il giusto richiamo di un amico, Francisco Rico. In una delle nostre belle, indimenticabili chiacchierate (a Roma? No, forse a Barcellona, a La bodega) ci raccontammo due casi incredibili avvenuti nelle nostre vite. Vite di “lettori”… Lui, bambino, stava leggendo sul treno I tre moschettieri, il treno si ferma, il piccolo Paco guarda fuori del finestrino e si trova davanti il cartello con il nome della stazione che è esattamente il luogo in cui le pagine del romanzo erano ambientate. Io, di rincalzo: durante una vacanza degli studi universitari mi ero ritirato in campagna per farmi una scorpacciata estiva di quei grandi, grossi romanzi che si rischiano di non leggere; tra questi Ulysses; e mentre leggevo una delle righe all’apparenza più folli “cucucu cucucu cucucu” un uccello comincia a cantare esattamente questo verso. Agnizioni di vita e di lettura, si direbbe, che ci facevano sentire molto vicini. E, ironia della sorte, Rico è citato proprio per la sorte nel Lazzarillo (per il quale la sua lettura è fatta dialogare con quelle di Ortega y Gasset e Rico, appunto; come Ian Watt e Pavel dialogano per Tom Jones ecc.).
Parlavo della lingua. Il saggista mette a contatto, fa reagire, sempre più da vicino schegge lontane e le ravvicina sempre di più fino al momento decisivo in cui le schegge o si respingono o si armonizzano miracolosamente. Per l’avvicinamento di temi apparentemente discosti siamo nel solco della migliore saggistica à la francese; in questo mi pare di scorgere l’ombra di Giovanni Macchia, ad esempio il Macchia geniale di Manzoni e la via del romanzo. Pensavo di azzardare ma poi – piccolo appiglio – lo trovo utilizzato nella splendida riconsiderazione della figura di Gertrude a p. 143 in poi e citato nelle note in calce al volume (sfogliandole mi è venuto di pensare – esagerando, si capisce – che tutto sommato sono utili fino a un certo punto: l’impianto del libro si confronta con il senso complessivo delle opere, non con il significato di singoli versi o pagine).
La pagina dello scrittore-saggista interviene nella seconda fase, e la fonde alla prima. Il momento di maggiore concentrazione ermeneutica lo si riconosce perfino graficamente: in corsivo o depositate dalle caute pinzette delle virgolette, etichette buone per un mondo le si vede accostate, con tutto il loro mondo culturale, sociale, alla situazione all’apparenza distante e che lo scrittore-saggista sta mettendo alla prova; fra gli svariati esempi dalla Bibbia al Novecento, ne scelgo qualcuno: del Giulio Cesare di Shakespeare «uccidere il tiranno è dunque il fine “eroico” di Bruto e Cassio, pour le bien public. Ma il “barbaro” Shakespeare, rispetto a Voltaire suo critico irremovibile, è un passo avanti», di Ettore «nessuna casa, nessuna cura, nessun “debito amor” potrà mai sostituirsi all’imperativo della gloria», incluse nuances ironiche: sul padre del Paleolitico «il padre, del tutto sprovvisto di potere sociale e familiare, era specialmente utile come tuttofare e compagno di giochi dei piccoli, attivo in casa (o nella grotta) al pari di una nurse».
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.