Diario di una spettatrice
Il mistero del Reno
"L'oro del Reno", film d'esordio di Lorenzo Pullega, racconta la storia di un fiume dimenticato. In un florilegio di citazioni “emiliane", da Fellini a Pupi Avati
Un primo piano strettissimo inquadra gli occhi socchiusi di un samurai che scruta immobile l’orizzonte. Il piano si allarga sul suo cimiero e sui due compagni abbigliati come vichinghi in piedi accanto a lui su una barca nibelungica che scivola silenziosa al centro di un fiume. Il samurai alza al cielo un mangianastri come fosse una katana e il crescendo wagneriano esplode nell’aria.
La scena d’apertura è platealmente surreale mentre una voce fuoricampo ci racconta una storia altrettanto incredibile: nel 1985, quindi quarant’anni fa, un gruppo di melomani giapponesi innamorati di Richard Wagner decise di raggiungere il Reno per celebrare l’autore della tetralogia L’anello del Nibelungo. Ma invece di raggiungere il fiume tedesco di “Das Rheingold” raggiunsero l’omonimo corso d’acqua che scorre in Emilia-Romagna. Una favola, anzi una balla.
Inizia così L’oro del Reno, il primo lungometraggio del regista bolognese Lorenzo Pullega, classe 1991, a lungo assistente dei Manetti Bros. (che lo producono insieme a Pier Giorgio Bellocchio), già autore di corti pregiati e vincitore con questa pellicola del premio alla miglior regia per il cinema italiano al Bifest 2025. Per me un film inevitabile considerando che vivo a Bologna, anzi a Casalecchio di Reno, dove il fiume che scende dall’Appennino compare e poi scompare perché a Bologna il fiume c’è ma non si vede da secoli, corso d’acqua interrato e misterioso, meta di visite guidate alla scoperta dell’altra città sotterranea. Ma a Casalecchio c’è ancora il lido dove i bolognesi andavano in vacanza nel Novecento con gli ombrelloni e i lettini come fossero a Rimini.
L’oro del Reno è un film bizzarro costruito a episodi, anzi a tappe considerando che è un viaggio dalla sorgente alla foce. A raccontarlo è Neri Marcorè che presta la sua voce fuoricampo al regista incaricato di realizzare un documentario sul Reno da uno strambo circolo locale. Pretesto debole che rivela fin dall’inizio come il film sarebbe stato ben più convincente se avesse beneficiato di una scrittura più strutturata e meno ondivaga, a tratti decisamente improbabile, che nella parte conclusiva si perde come si perdono i personaggi nel nebbione delle valli comacchiesi, citazione evidente della celebre scena di Amarcord.
In realtà, la sceneggiatura si regge tutta sulle citazioni, e questo è il suo pregio ma anche il suo limite: le tappe appenniniche e le scene che ricostruiscono le terme di Porretta negli anni d’oro del primo Novecento evocano Pupi Avati e le dame dipinte da Giovanni Boldini (ed è qui che la fotografia di Alessandro Veridiani dà il suo meglio). Altre scene pescano a piene mani nelle atmosfere felliniane, come i personaggi-caricature del “popolo del sole” (spicca tra gli altri Eva Robin’s) accampati tutto l’anno sulle rive del fiume, hippy stagionati che saltellano tentando di rifare il balletto finale di 8 1/2.
Il film scorre lento come il fiume intrecciando passato e presente, storie inventate a fatti reali di cronaca – la scena della sposa Pia che cerca di raggiungere il marito sul letto galleggiante cita l’alluvione del 1823 che travolse il borgo di Durazzo, a poca distanza da Molinella, scomparso a causa di una disastrosa rotta dell’Idice, affluente del Reno, e nel film si vede ciò che tuttora emerge del campanile della chiesa – i fantasmi si mescolano ai viventi, una guida conduce gli spettatori sotto la fontana del Nettuno in una inesistente villa romana e così via immaginando. E ciò che è sogno o forse ricordo infantile diventa più reale del reale, fino al finale nelle acque salate dell’Adriatico, dove forse il Reno regala finalmente il suo oro. Quella pepita che siamo noi che non siamo nibelunghi, smarriti e ritrovati tra le mille storie dell’orizzonte basso tra acqua e terra che si chiama Emilia-Romagna.


