Al Castello dell'Acciaiolo di Scandicci
Ripetere ad arte
Al Nutida Festival, Diego Tortelli, con Cristian Cucco e Thomas Van de Ven, ha presentato la coreografia “Bodies on Glass”, ispirata alla musica di Philip Glass
Non è casuale che Philip Glass abbia sempre disdegnato la definizione di “minimalista”. La trovava fatuamente inevitabile, diretta conseguenza di quella sua opera di compositore che amava scrivere:“ musica con strutture ripetitive”. Sarà una coincidenza che Glass fosse in procinto di debuttare con 600 lines (immediatamente censita come minimalista) nel 1967, anno in cui Gilles Deleuze proponeva a Presse Universitaire de France un’ampia revisione della sua tesi di dottorato, Différence et Répétition, le cui tematiche parevano coincidere con la poetica di Glass, per il quale era inevitabile che il fare artistico fosse anche una fonte di ripetizione. A sua volta per Deleuze il ripetersi si basava sulla differenza più profondamente di quanto le si opponesse, il che sussumeva che, più profonda era la ripetizione, più importante sarebbe stata la differenza.
Che tutto questo risulterà ancor più evidente nei campi della teatralità e della creazione artistica, ha reso più significativa, a distanza di quasi sessant’anni, la performance Bodies on Glass a cui ho assistito nel corso della sesta edizione di “Nutida Festival”, che si fregia della direzione artistica di Cristina Bozzolini e di Saverio Cona, coadiuvati dalla direzione artistica jr e dalla curatela di Gaia Bianchi. Per buona sorte, prima di recarmi al castello dell’Acciaiolo, ho dato uno sguardo a poche righe, utilissime, scritte dal filosofo francese, che potremmo rileggere come il manifesto poetico di Bodies on Glass. Queste… “Non basta proporre una nuova rappresentazione del movimento, poiché la rappresentazione è già mediazione. Si tratta invece di produrre nell’opera un movimento capace di smuovere lo spirito al di fuori di ogni rappresentazione, e di fare dello stesso movimento un’opera, senza interposizione; di sostituire dei segni diretti a rappresentazioni immediate; di inventare vibrazioni, rotazioni, vortici, gravitazioni, danze o salti che tocchino direttamente lo spirito. È questa un’idea da uomo di teatro in anticipo rispetto al suo tempo.”
Il talento di Diego Tortelli non richiede alcuna presentazione. Il suo è un nome che va da sé nell’ambito della coreografia internazionale. Grazie all’impegno speso assieme a Cristian Cucco e a Thomas Van de Ven (costumi di Etro by Marco de Vincenzo), Tortelli ha vissuto il privilegio di accompagnare i suoi due danzatori nelle spire della meravigliosa esecuzione dal vivo di Andrea Rebaudengo, così facendo dono al pubblico di un colpo di teatro di enorme intensità emotiva. Del resto, la traccia lasciata da Rebaudengo risultava di tale raffinatezza da creare l’effetto di una composizione vastamente creativa da cui si percepiva un molteplice coniugarsi di armonie lineari con passi impercettibili, e di spazi posseduti con incertezze e pause. Precise pause che coincidevano con la percezione, da parte dei danzatori, di una sublime piega musicale. Questo può accadere allorché ciascun interprete rimane in cerca della sensibilità altrui, che poi è quella che troverà all’atto di esibirsi. In questo gioco insicuro ma felice, la coreografia di Tortelli dava l’impressione di compiersi nel momento medesimo in cui Cristian Cucco e Thomas Van de Ven, con un soffio di mistero, la inveravano appieno. Era come se entrambi fossero apparsi in scena già abitati dalle note di Philip Glass e, allo stesso tempo, desiderosi di entrare, a loro volta, nel corpo della musica. Dopodiché il loro incedere sul vetro provocherà uno stato di esitazione, fino a sentirsi rassicurati dal fatto che il “glass” era infrangibile.
Questo risiedere nella musica sarà causa di una umanissima separazione tra il corpo che vi rimane e la mente che, dapprima isolata, infine si libera da una coabitazione che le sta togliendo fiato. Di conseguenza le espressioni e i movimenti di Van de Ven e di Cucco prenderanno a divergere: il primo si abbandonerà a un’intima empatia, dacché la sua immaginazione sarà in grado di estrarre ogni differenza dal ripetersi della musica; per parte sua, Cristian Cucco arriverà a scindere il suo volto dal corpo, e non già a beneficio di una razionalità mentale, bensì a difesa di quel che era rimasto escluso dal flusso musicale. Così Tortelli ha realizzato quella comune ambizione a cui aveva accennato in un’intervista: il disvelamento di “una struttura interna, una specie di grammatica viva.” Negli auspici dei magnifici 4, questo genere di approccio, vissuto da un team così affiatato, avrebbe regalato agli spettatori “l’esperienza di un’opera che respira, che si modifica, che rimane in bilico tra definizione e possibilità.”
Lasciando il Castello dell’Acciaiolo ho sentito che il non-dicibile era prevalso, e che tale esito aveva portato in sé l’evocazione e la memoria di un tempo in cui il pensiero era creativo e la composizione era spesso in attesa della giusta piega per chiudersi. Sicché ho avvertito il desiderio della piega di un dialogo, e a offrirmela è stata Gaia Bianchi, che mi ha subito confidato la commozione provata durante il mescolarsi della musica dal vivo con la sublime tecnica dei due, bravissimi nel camminare con tutta l’incertezza di chi muoveva i piedi sul vetro. Da lassù in poi sarebbero discese a valle differenti esperienze di felicità che apparivano come tanti piccoli ossimori sbattuti dal vento. Come la paura, come il reciproco aiuto tra Tomas e Christian, come l’assentarsi dell’uno o dell’altro, quasi a concedersi un moto di pietà nei confronti del compagno di sentiero. Tutte queste impressioni ce le siamo dette tra un silenzio e l’altro, fin dove ci avevano accompagnato la lievità di Rebaudengo e il sorriso complice dei due danzatori, sorpresi di essere giunti a un finale senza meta, dove di lì a poco, su un palco immaginario, il pianoforte avrebbe ripreso a suonare, e noi a muoverci, ad applaudire, a rivivere.


