A proposito de "L'acquario"
La casa di Carlo
Il nuovo romanzo di Elio Pecora ruota intorno a un personaggio che va alla ricerca non tanto del suo passato (rappresentato dalla casa dell'infanzia), quanto di tutto ciò che ha dimenticato...
Carlo torna al paese natale dopo la morte della madre, per verificare le condizioni della casa ereditata, che sa pesantemente danneggiata dal terremoto. Ha l’intenzione di disfarsene, ma del tutto inaspettatamente, una volta entrato nella stanza dove bambino si addormentava nei pomeriggi estivi, guardando oltre il tetto in parte crollato, decide di risistemarla e comincia a lavorare egli stesso per renderla abitabile. È il giardino, che una volta fu un orto, a essere al centro dei suoi progetti. Da allora diventerà la ragione prima dei suoi ritorni. Intorno c’è il resto della vita, la natura, il bosco, le piante e gli animali che lo abitano, che premono, una moltitudine senza regole. Carlo vorrebbe che quel piccolo luogo delimitato fosse libero dal trambusto e dal pericolo, oasi di pace e di silenzio, sia pure di “un silenzio colmo di voci”. In quel giardino “grazia e bellezza convivono con rabbia e paura, con amarezza e malinconia”. Il lembo di mondo, perimetrato dai muri della casa e dalle pareti di caprifoglio e di ortensie, e ricco di alberi e piante, finisce per essere il segno di quella parte di realtà, minima e fragile, che ci viene assegnata, che vorremmo in ordine, che ci piacerebbe poter totalmente definire e guidare, ma che in effetti fa parte anch’essa di un insieme caotico, multiforme e senza una direzione precisa, che tutto intorno preme, che fa e disfa vite e vicende.
Carlo è il personaggio che più di ogni altro, e sono davvero tanti, si muove nelle pagine de L’acquario, il romanzo di Elio Pecora da poco pubblicato per i tipi di Neri Pozza (240 pagine, 19 Euro). Alle sue vicende esistenziali e soprattutto alle sue riflessioni sono dedicati i primi e gli ultimi capitoli del libro. Lo stesso Carlo è il depositario, o il testimone, di gran parte dei racconti, in cui si prodigano gli altri personaggi, che compongono una parte consistente della narrazione.
Siamo di fronte a un romanzo inaspettato, che non vuole cercare il consenso del lettore attraverso un plot narrativo d’effetto, né ammansirlo inducendolo alla commozione facile. Anzi, Pecora mette subito sull’avviso. Non esiste una verità da estrapolare e mettere in mostra, nemmeno a uso della letteratura, nessuna certezza definitiva, tanto meno per quanto riguarda le relazioni tra gli esseri umani. Eppure tutti la cercano, la verità, e la raccontano, se la raccontano. Tra i tutti, naturalmente anche le donne e gli uomini che abitano le pagine del romanzo, per la maggior parte scrittrici e scrittori, artiste e artisti, musicisti, attrici, registi, Anna, Laura, Lorenzo, Rodolfo, Giacomo, Lidia e i numerosi altri. Il risultato della ricerca e del raccontare è solo quello però “di fornire a chi ascolta mappe intricate di percorsi, in gran parte inesplorati”. Insomma “l’uno e l’altro, chi racconta e chi ascolta ‒ dice il narratore (l’autore?) in Premessa ‒, restano particelle di un corpo sconosciuto”. Che è come dire ‒ è costretto ad aggiungere il lettore ‒ che non bisogna aspettarsi una storia come le tante che si leggono, dove l’intrico è alla fine svelato, e una verità, bella o brutta che sia, dalla matassa emerge. Se in fondo il romanzo ha la prerogativa di ritagliare una parte più o meno esigua di realtà e di ordinarla in una storia che abbia un inizio e una fine, ne L’acquario tutto questo non accade. Non può accadere, perché la realtà, anche quella individuale, quella vera, non romanzata, che viviamo tutti i giorni, non lo permette, è una trama irrisolta. Man mano che le vicende si dipanano, che le diverse voci raccontano e confessano gli accadimenti della propria vita, le debolezze, i rancori, i momenti di felicità e quelli di sofferenza, e il lettore si arroga il diritto di aspettarsi una svolta, l’intreccio rimane intreccio, perché a essere intrecciata e poco disponibile a soluzioni romanzesche, per nulla interessata a fare chiarezza, è la realtà.
Il narratore raccoglie voci e le registra, voci che amano parlare, dire e dirsi la vita, rappresentarla, sceneggiarla, farne teatro. Annota i movimenti di donne e di uomini che hanno ancora voglia di incontrarsi, vengono da un altro tempo, fanno parte di una società che si è formata qualche decennio fa e che ormai ha visto svanire sogni, vivacità, valori e passioni. Sono esseri umani non ancora deviati dall’uso ossessivo dei telefonini, o costretti a una solitudine televisiva o a quella animata e rumorosa di feste e aperitivi in cui nessuno è più capace di esprimere qualcosa di sé, durante i quali in fondo nessuno ama più conversare. Il narratore è un coprotagonista silenzioso e vigile, nascosto eppure presente, a suo modo ansioso, comunque partecipe.
A lato della realtà frenetica e in perenne movimento, in sterminato disordine, proprio nei pressi della “ressa di eventi, estranei, remoti, intravisti per un attimo, per un attimo trattenuti”, o forse, meglio, al suo interno, c’è l’acquario che dà il titolo al romanzo, dove quelle donne e quegli uomini “se ne stanno vicini, confondendo i loro percorsi, cercando appartenenza e compagnia”. Pecora in fondo manifesta nostalgia per quel consesso sempre alla ricerca di qualcosa che sia in grado di salvare sé stessi e gli altri, capace di offrire consistenza all’esistenza.
I protagonisti de L’acquario sono in buona parte ancora legati a un mondo, quello dei paesi e delle campagne d’origine, possono ancora ricordare una realtà e modalità di vita, poi definitivamente tramontate. È un mondo che vorrebbero trattenere o almeno preservare dal definitivo oblio. Sara, ad esempio, degli anni della guerra, del periodo che fa seguito al bombardamento a San Lorenzo, vorrebbe seguitare a ricordare lo “stupore”, e di quell’orrore, dice di essersi portata dentro, quasi come un dono, “la voglia di resistere, di continuare”. Raccontare è forse, suggerisce il narratore, “preservare sé stesso e il mondo, che in quel sé va raccogliendosi, dalla sparizione. In questo, forse, una promessa di salvezza, di durata”.
In quel mondo, c’era un diverso rapporto con la morte e con i morti. I morti che compaiono spesso nei racconti dei vivi, e sembrano essere presenti, muovere richieste, fare parte anch’essi dell’intreccio aggrovigliato della realtà. Così anche il tempo, in queste pagine, si moltiplica e si confonde, perché ogni personaggio è perfettamente ancorato al suo presente, ma riporta e descrive anche il passato. Nel presente e nel passato ci sono spesso vicende d’amore. Il romanzo è anche un interrogarsi su cosa rappresentano nelle vite di ognuno le relazioni affettive.
E, dai racconti e dalle voci narranti, fa capolino, quasi distrattamente verrebbe da dire, una Roma maestosa e umile, aristocratica e popolare, ricca di presente e di passato, che il lettore attento può mettere a fuoco per confrontarla, impietosamente, con la città di oggi.
Carlo, che ha la stessa età dell’autore del romanzo, è da sempre ossessionato dal tempo, “quello che non s’arresta, che muta la giovinezza in vecchiaia e il futuro vagheggiato in passato deludente”. L’acquario, anche per opera di Carlo e delle sue riflessioni, di quelle delle sue amiche e degli amici, è una narrazione che non ci tiene per mano, accompagnandoci in una storia e insieme dicendoci com’è fatto il mondo, ma ci pone invece interrogativi, ci impone di meditare su noi e sul nostro tempo, indaga nelle nostre vite.
Carlo di fronte all’accumulo di situazioni che ha vissuto si chiede quante persone, anche quelle vive e lontane, ha dimenticato, “di quanti luoghi e giorni e momenti ha potuto cancellare l’esistenza”. Ce lo chiediamo anche noi lettori con lui. Siamo stati veramente attenti e partecipi? Quanti ci sono passati solo accanto? “E la vita intera gli si presenta come un interminabile a affollatissimo teatro di cui gli è riuscito di vedere solo una piccolissima parte. […] Quanto di non detto, di non compreso, ci viene dal più accurato e mirabile dei racconti, quanto dalla più instancabile delle ricerche?”.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


