Luca Fortis
La crisi in Medioriente

Voci dall’Iran

L'opposizione, in Iran, continua a esistere malgrado le violenze e le pressioni di un regime oggi alle stremo. Ma gli iraniani chiedono "gentilezza". E un futuro "normale"

Gentilezza. Abbiamo bisogno di gentilezza, di comprensione reciproca. In anni di viaggi in Iran, questa è la parola chiave che i miei amici iraniani mi hanno ripetuto allo sfinimento. Un paese intrappolato e vittima di ideologie, interne ed esterne, non ne può più di dogmi, verità assolute e idee imposte a tutti. Sogna la tranquillità che solo la diversità può offrire. In parole semplici — per usare un’immagine forse riduttiva, ma chiara — sogna un paese in cui una donna velata possa camminare mano nella mano con una donna senza velo, in un luogo né integralista, né filoamericano o filo-israeliano, ma nemmeno ostile a priori.

Gli iraniani sognano un paese capace di mantenere buoni rapporti un po’ con tutti, un po’ come faceva l’Italia democristiana. In un’epoca di estremismi, scegliere la moderazione, stare nel mezzo — una via di mezzo tra Pannella e De Gasperi — è forse la vera rivoluzione. Sotto le bombe israeliane, gli iraniani sono paralizzati, stretti tra un regime che non amano e una guerra che non sentono loro. Semplicemente attendono, ed è proprio l’attesa un’altra parola chiave.

Gli iraniani, per ora, attendono.

Da anni, invece di scendere in massa per strada e farsi arrestare, hanno cambiato forma di resistenza. Usano il proprio corpo, ogni giorno, per infrangere regole imposte: mentre fanno la spesa, vanno al caffè, passeggiano. Piccoli gesti: camminare senza velo, passeggiare con il cane, bere alcol, organizzare una festa. Ma fatti in massa, questi gesti hanno mandato in tilt il regime, che dopo un’iniziale violentissima repressione ha dovuto far finta di nulla. Non può arrestare tutti: meglio l’ipocrisia. A parole inasprisce la legge, nei fatti chiude gli occhi.

Cosa accadrà ora che il paese è sotto le bombe è difficile a dirsi. Ma una cosa è certa: che gli ayatollah restino in piedi o no, nulla sarà più come prima. La batosta è stata troppo evidente, e gli iraniani non perdoneranno la mancata perestrojka che chiedono da decenni. Anche sul piano internazionale, la sconfitta è chiara. La cieca rigidità degli ayatollah in politica estera, ben diversa dalla flessibilità opportunistica mostrata nella politica interna, ha rivelato una cosa: la Repubblica Islamica ha perso su tutti i fronti. Anche se dovesse salvarsi, il prezzo da pagare per rassicurare la comunità internazionale che non userà l’atomica come salvagente, seguendo l’esempio di altri paesi, sarebbe altissimo.

Inoltre, la società iraniana è stanca: a opporsi al regime non sono solo i laici, ma anche una parte significativa dei religiosi, stanchi di vedere la centralizzazione dell’interpretazione del Corano in mani statali. Accusano il governo di eresia, poiché, secondo la dottrina sciita duodecimana, dopo il dodicesimo imam, nascosto e mai morto, nessuno può ergersi a unico interprete, custode della verità profonda dello sciismo. La maggioranza della popolazione vorrebbe tornare al cosiddetto quietismo, quella posizione secondo cui lo sciismo non faceva politica e non si contrapponeva ai sunniti. Anche i sufi si oppongono con forza alla centralizzazione dell’interpretazione e per questo, sono stati perseguitati. Vi sono poi i Bahá’í, seconda religione del paese, considerati illegali, poiché nel 1800 hanno fondato una nuova fede che si riconosce come nata dall’Islam, ma che per i suoi fedeli rappresenta un suo superamento. Anche le minoranze culturali — azere, turcomanne, arabe, curde e baluci — chiedono maggiore autonomia.

A questo si aggiungono i gravi problemi ambientali causati dalla cattiva gestione delle risorse idriche: la costruzione di imponenti dighe ha finito per salinizzare l’acqua destinata all’agricoltura, mentre il prosciugamento delle zone paludose per lo sfruttamento degli idrocarburi ha contribuito a inaridire la terra. Tutto ciò, negli anni, ha provocato frequenti rivolte da parte degli agricoltori. In generale, l’economia è in rovina, e questo alimenta un malcontento sempre più diffuso.

Le ricorrenti preoccupazioni occidentali, secondo cui, se il regime iraniano cadesse, il paese rischierebbe di sprofondare nel caos, come già accaduto in Libia, Siria, Libano o Sudan, mi sembrano poco fondate. La Persia è uno Stato da millenni e anche quando è stata conquistata da altri imperi, è sempre riuscita a persianizzarli. Il paese dispone di una vasta e articolata nomenclatura: presente in patria, nelle carceri, all’estero. Inoltre, vi è una borghesia ampia e radicata, stanca delle sanzioni, che non aspetta altro che un ritorno alla stabilità per poter tornare a commerciare. Pur di avere stabilità, sarebbero disposti ad accettare compromessi. Anche una parte significativa dei militari, che controllano le grandi aziende nazionalizzate del paese, sarebbe probabilmente pronta, almeno secondo quanto si vocifera da anni in Iran, ad accettare compromessi pur di conservare parte del proprio potere.

Del resto, è dal 1980 che l’Iran è nella bufera. La popolazione avverte che è giunto il momento di creare spazio per tutti e di instaurare buoni rapporti con le altre nazioni. La gente, semplicemente, cerca gentilezza. È stanca di verità imposte e divisive. Ora resta da capire se la geopolitica e i governanti sapranno ascoltarla, o se resteranno sordi.

Facebooktwitterlinkedin