Una riflessione controtendenza
Teresa e il dialetto
Elogio del teatro dialettale, spesso più autentico e concreto della prosa convenzionale. Da Ruzante ai Legnanesi, passando per un lungo repertorio di tradizioni popolari
Con questo articolo Paolo Puppa, grande critico e storico del teatro, inizia a collaborare con Succedeoggi. Gli facciamo gli auguri di benvenuto!
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Confesso, invecchiando, una qualche simpatia per il teatro dialettale. Questione di anagrafe. Lo trovo comodo, adatto alla ricezione da divano, perfino nelle versioni filodrammatiche, dove la qualità scarsa della recitazione viene riscattata dalla complicità furiosa della sala, dal ponte affettivo che congiunge palco a platea, sintonizzata nei visceri con quanto gli si mostra. Mi sono occupato tempo fa della coppia dei muranesi Carlo d’Alpaos e Giorgio Pustetto, cugini tra loro e in arte Carlo e Giorgio, usciti dalla costola di Lino Toffolo. Le loro macchiette a puntate, risorse e limiti nella loro crescita, si esaltano nondimeno nel montaggio fumettistico di una famiglia disturbata. Qui, tra gli altri ruoli parentali, Carlo la moglie, bigodini in testa e guanti da lavapiatti sulle mani, si consuma nella vana resilienza nei confronti del panciuto e debordante marito, stuzzicadente in bocca alla ricerca inesausta del goto de vin.
Ogni tanto mi capita di esibirmi nel mio dialetto veneziano sul palco, per qualche performance occasionale. Mi pare allora di mettermi in pigiama, nel rapporto cogli spettatori specie se anziani, anzi mi sembra di girare per casa in mutande. Se mi confronto coll’attitudine del corpo e del volto quando pronuncio o meglio pronunciavo l’inglese da visiting professor, subito risalta la falsità della postura, evidenziata nel birignao di una phonè diversa, come un attore uscito dall’Accademia, che imposta e ingessa la voce “a cul di gallina” come chiosava con ironico disprezzo il grande Alberto Savinio.
Di recente, nell’archivio infinito di You tube inseguo frammenti della Compagnia dei Legnanesi, quasi un vizio, non solitario considerato l’appeal nazionale di cui godono. Costoro dal 1949, con qualche pausa alla morte degli interpreti, costituiscono un autentico fenomeno nello spettacolo lombardo. Uomini che per lo più fanno le donne, comari chiassose e pettegole. In mezzo al loro cicaleccio, svetta la coppia litigiosa formata da Teresa e Giovanni, in colorata appendice la figlia Mabilia, cresciuta nel terrore di restare zittella. Teresa, affidata all’inizio al cofondatore Felice Musazzi, scomparso nel 1989, e poi all’attuale Antonio Provasio nato nel ’62. Il consorte, a lungo retto, almeno sino al 2019, da Luigi Campisi. La figlia, sulle spalle rilucenti di Toni Barlacco, l’altro creatore del gruppo, morto nel 1986, quindi di Enrico Dalceri dal ’98. Quest’ultima italianizza il lessico nel suo empito ascendente, mentre i genitori la riportano di continuo ad un sanguigno e gutturale impasto fonico. Lo spazio non è mai l’interno domestico, ma il cortile, il salotto popolare a ringhiera, col gabinetto condominiale a piano terra, dove si incrociano i conflitti, e dove irrompono le figure dell’autorità, il sindaco, il prete, il poliziotto. Casa Colombo, titolo anche di serie Rai nel 2008, questo il nucleo. E tra marito e moglie si consuma una perfetta disarmonia di ingorghi sonori, di interferenze gestuali, di sapienza nel controllo dei fiati e delle smorfie. La figlia nel frattempo spinge il travestismo verso paillettes e boys di rigore che rimandano al prototipo di Wanda Osiris alla ricerca di scale da dove scendere ancheggiando, tra drag queen casarecce, ingombrata da abiti sontuosi e pacchiani e copricapo alla Carmen Miranda. In cambio, la madre Teresa in grembiule e abitino da casalinga brandisce come un’arma il fazzoletto rosso a pois o grigio con cui si deterge la bocca a risciacquarla dopo la battuta o sul punto di darla. Giovanni, infine, che vacilla tremulo per le copiose mescite, a caccia di parole solo smozzicate, incomprensibili a tutti tranne che alla moglie, sua rassegnata interprete e lamentosa per l’interruzione totale dei trasporti coniugali. Ogni tanto Giovanni libera grida disarticolate in cui pare interrogarsi sulla sua disarmata presenza nel mondo. E lei ha buon gioco nel rinfacciargli i soldi spesi nei corsi di yogurt, come in Lasciate che i pendolari vengano a me del 2013. O si veda la parodia del funerale, come nelle squinternate dissonanze di Regna la rogna, nato ne 1974 e ripreso nel 2007-2008. Ma ci vorrebbe la penna erudita e geniale di Eugenio Ferdinando Palmieri, nel suo Del teatro in dialetto, recuperato da Gian Antonio Cibotto nel 1976, Bibbia autentica per i cultori della materia, dove si canta la ribalta inter-regionale, per coglierne le risonanze genetiche, le infinite connessioni colle vaste tradizioni radicate. In questo caso. da Edoardo Ferravilla e dagli Scapigliati sino al Testori dei classici rimodulati in vernacolo sublime nei primi anni ’70, a Dario Fo e al grammelot fermentato nel centro-nord.
Il dialetto a teatro non chiama però solo i registri comici. Basti riandare a cinque secoli fa quando Ruzante, alias Angelo Beolco, divertiva nel primo Rinascimento la corte dei Cornaro ad Asolo con la storia sanguinosa di Bilora, dove uno scalcagnato brazente (colui che trascinava gli alberi lungo il Brenta dalle Alpi a Venezia) massacrava il vecchio alto borghese Sior Andronico che gli aveva rubato durante la guerra la femena. O ancora a I mafiusi de la Vicaria del 1863, firmati da Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, ambientati nelle prigioni di Palermo, minacciosi ben prima degli abili romanzi western di Sciascia. Viene altresì in mente, complice e saettante, lo sguardo del piccolo Gilberto Govi, che deve sistemare le figlie, come nei repertori ottocenteschi del ghetto. Del resto, l’asse geografico ebraico da Genova transitando per Livorno conduce alla laguna veneziana. Sì, Govi che nelle torsioni scimmiesche rimanda al suo antecedente catanese, all’Angelo Musco da cui Pirandello ha appreso i tempi della ribalta e pur detestandolo ne ha assimilato le varianti, vedi il finale di Lumie di Sicilia nel 1910 col lancio dei frutti addosso alla cantante corrotta.
Per nulla rassicurante anche la nevrosi paranoide con cui Cesco Baseggio immortalava il suo Todero brontolon, incapace di pensare alla propria morte, e convinto di sopravvivere ai nipoti. Ne resta traccia ammaliante nella versione tv, ancora godibile nella registrazione in piattaforma del 1969. Da poco gli è morto suicida Walter Ravasini, l’amante nascosto, negli anni democristiani in cui l’amore che non può chiamarsi tale era bandito. Lo ricorda nel camerino il nipote Franco Fido, il carismatico goldonista, quando andava a trovarlo appunto dopo il suo Todero spaventoso. Gli occhi ovati e sporgenti lanciavano bagliori assassini, essendo il personaggio, non ancora lo zio tornato bonario. E con lui in scena Gino Cavalieri, il servo Gregorio, spalla dispettosa e complementare, ricompattando la dualità degli zanni senili. Circolava freddo nell’oscura casa, ricostruita in studio. La lana pareva impadronirsi del corpo sbilenco e strascicato dell’attore, lo zuccotto in testa, la logora e bisunta palandrana, mentre mormorava sinistri richiami a un décor ebraico, o meglio hyddish, a follie da romanzo russo tardo ottocento più che a psicologie molieriane.
Scendiamo a Napoli, a riassaporare il risveglio ritardato di Luca in Natale in casa Cupiello, per non ricadere nella realtà sgradevole e sgradita, sotto un cumulo di scialli e coperte, annunciato da una sequela di borborigmi e miagolii, mentre la moglie, Pupella Maggio duella con lui nella riedizione tv del 1977 (tutti i grandi interpreti dialettali lottano tra loro, trasformando ostilità private in sinergie solari). Nella storia dei risvegli sul palcoscenico, solo le Massere goldoniane del 1755 mandano un’analoga luce, la mimesi del quotidiano banale assurto a poesia pura. le massere sono le serve nelle più basse mansioni fisiologiche a dialogare nel ritmo musicale del martelliano, ossia nel verso corrispondente all’alessandrino, quello messo da Racine e da Corneille in bocca alle regine e agli eroi. Cosa c’è di comico nel volto dissugato di Eduardo, nato vecchio e inadatto alle farse amate invece dal fratello Peppino?
Accanto al titolo, la statua del Ruzante a Padova.


