Leo Carlesimo
La conclusione del racconto «coloniale»

Ritorno a Vientiane

«Questa faccenda dei colori francesi è un altro aspetto della questione. Fino ad allora, nelle varie missioni svolte in quell’area di mondo, tracce dell’ex-colonizzazione francese ne aveva viste poche...»

Riassunto della prima parte. Per partecipare alla gara d’appalto di una diga in Laos, la Compagnia assolda un vecchio esperto italiano di dighe trapiantatosi da più di cinquant’anni in Thailandia, Venturini, che in passato ha curato gli interessi di un’altra impresa italiana, molto attiva in quell’area di mondo nel campo delle costruzioni tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. La Compagnia, che sta ultimando un’altra diga con impianto idroelettrico in Malesia, ha anche un secondo consulente commerciale, il sino-malese Mr O. La corrente tra i due non passa e Angelo, il giovane rappresentante delle Compagnia in estremo oriente, cerca inutilmente di mediare tra i due vecchi (sia Venturini che Mr O sono abbondantemente sopra i settanta, mentre Angelo è sulla quarantina). La mediazione raccoglie solo una serie ripetuta di insuccessi, in vari incontri a Bangkok, Kuala Lumpur e Singapore. Finché improvvisamente, una volta in Laos, a Vientiane…


Fu a Vientiane che l’alchimia tra quei due cominciò a cambiare. Quelle dove s’erano incontrati finora – Kuala Lumpur, Singapore, Bangkok – con le loro sfavillanti selve di grattacieli, sono enormi, moderne, frenetiche città. Ma Vientiane, coi suoi minuti edifici e le sue viuzze sporche, era una piccola, antiquata, sonnolenta città. Come un pianetino di massa più modesta, la cui gravità minore ti spoglia, t’alleggerisce. Un rimpicciolimento funzionale forse all’affare che la Compagnia perseguiva laggiù.

Ci arrivarono in aereo, da Bangkok, mentre il convoglio di fornitori, subappaltatori e tecnici della Compagnia procedeva via terra dal confine thailandese e li avrebbe raggiunti il giorno dopo, coi pick-up, le attrezzature e i macchinari leggeri necessari allo scopo.

Presero alloggio in un piccolo albergo che passava per il migliore della città, una vecchia costruzione d’epoca coloniale, con le camere modestamente ma dignitosamente arredate, dotate di un bell’affaccio sulla piazzetta centrale, la luce chiara filtrata da tendine bianche, i letti stretti col materasso duro e il cuscino a rullo, alla vecchia maniera francese; armadi che esalavano un tenue profumo di lavanda, comodini dotati di abat-jour, una bergère da lettura affiancata da una lampada a piede, bagni provvisti di vasca e bidet antiquati ma funzionanti. L’albergo aveva un’insegna al neon modesta, nient’affatto vistosa, con la scritta Chez Laure – nome non dell’hotel, ma del ristorante – lampeggiante, bianca rossa e blu, che era il massimo della modernità in quella minuscola capitale.

Questa faccenda dei colori francesi è un altro aspetto della questione. Fino ad allora, nelle varie missioni svolte in quell’area di mondo, tracce dell’ex-colonizzazione francese ne aveva viste poche. Diffuse, permanenti impronte britanniche (Malesia, Singapore) che plasmavano vari aspetti – architettonici, culturali, attinenti alle modalità di socializzazione e ai rapporti razziali e inter-religiosi, oltre a influenze di tipo legale e, ovviamente, un profondissimo imprinting di natura linguistica – dell’eredità del passato; e fortissimi, invasivi bardage di facciata contemporanei, tutti americani, in ogni campo, soprattutto negli affari e in questioni legate al denaro, che plasmavano il presente. Però pochissime o nessuna insegna francese. Invece, per la prima volta lì in Laos, a Vientiane, trovarono dei resti di quel passaggio. Resti che marcavano la stessa diversità che in anni passati Angelo aveva colto in West Africa, tra l’eredità coloniale francese e quella inglese, per esempio nel raffronto tra Nigeria e Costa d’Avorio: si percepiva come un rallentamento, un’acquietamento, un’ansia e un’aggressività trattenute; una sorta di vasca di calma, che invitava a un modo più prudente di porgere le cose. Sulle stradine che circondavano l’hotel s’affacciavano bottegucce che smerciavano prodotti provenzali o bretoni o normanni, ostentando ciascuno il proprio marchio d’origine, dettaglio assurdo laggiù; e l’attitudine dei commercianti – tutti laotiani – era più paziente, meno sbrigativa verso il forestiero e le seccature quotidiane.

Passarono la seconda parte del pomeriggio in camera, a riposare e riguardare certe carte del dossier d’offerta. Poi, poco prima di cena, Angelo scese al pianterreno, nella veranda della sala ristorante, preparandosi a mediare nuovamente tra quei due. Faceva caldo, ma l’umidità era sopportabile. La veranda era coperta da una tettoia in legno verniciata di bianco e azzurro chiaro ed era arredata con tavolini bassi e sedie di bamboo. Venturini scese all’ora convenuta, poi comparve Mr O, con un certo ritardo, e si sedette anche lui. Stavano cenando, quando entrarono nella hall due uomini. Avevano bagagli e chiesero due camere. Dalla sala ristorante, la hall s’intravedeva di sguincio, oltre la vetrata. La molatura dei vetri alterava il profilo degli uomini. Quando li riconobbe, Venturini impallidì. Mr O li stava aggiornando su certi incontri avuti nel pomeriggio in città.

“Li conosce?” Chiese, interrompendosi.

“Forse…” disse Venturini. Pareva impaurito.

I due, al banco, stavano completando il check-in. Uno di loro scorse Venturini oltre il vetro. Gli piantò gli occhi addosso, diede di gomito al compare ed entrarono nella sala ristorante, dirigendosi con passo deciso verso di lui. Due omaccioni sui cinquanta, alti e panciuti, indossavano jeans e polo dai colori sgargianti. Non si tolsero i cappelli. Uno dei due alzò solo un po’ la visiera, posandogli sfrontatamente una mano sulla spalla:

“Guarda guarda, quella cariatide di Venturini.”

“L’avrei detto in disarmo da un pezzo…” disse l’altro.

Parlavano in italiano e si piazzarono uno a destra e l’altro a sinistra della sua sedia. Anche l’altro gli mise una mano addosso.

“No no, non s’è ritirato. Se la fa coi cinesi, adesso.”

“A quanto pare se li porta persino a cena.”

“Forza, vecchio mio. Ci offri qualcosa?”

“Una bevuta, in memoria dei nostri tempi.”

Venturini, terreo, non li guardava. Teneva gli occhi bassi e si lasciava toccare da quelle mani insolenti.

“Scusate,” intervenne Mr O serafico, in inglese. “Chi sono questi signori che interrompono la nostra cena?”

“Due vecchi amici della mummia,” rispose rudemente uno dei due. “Abbiamo da dirgli due parole.”

“In questo caso dovrete aspettare che abbiamo finito di cenare,” disse Mr O. “Senza presentarvi maleducatamente a un tavolo dove non siete stati invitati.”

“E tu chi saresti?” Disse uno dei due, senza togliere le mani di dosso a Venturini.

“Amico, sarà bene che non t’immischi. Non abbiamo bisogno del tuo permesso per parlare col nostro uomo…”

“Invece ne avete bisogno,” scandì Mr O, “perché in questo momento il vostro uomo è mio ospite e dovrete aspettare che io abbia finito con lui. O preferite che ve lo faccia spiegare dal personale dell’albergo?”

Angelo aveva già avuto modo di notare come Mr O, ovunque andasse, si facesse subito amici i subalterni del posto, distribuendo laute mance a inservienti, autisti, camerieri e barman. Doveva aver già provveduto anche lì, bastò un suo sguardo perché sulla porta della sala si materializzassero il cameriere, il cuoco e il facchino dell’hotel. S’avvicinarono al tavolo. Colti di sorpresa, i due tolsero le mani di dosso a Venturini.

“Lascia perdere. Ci parleremo dopo, con la mummia. Abbiamo tempo.”

“Sì. Aspettati di vederci.”

S’allontanarono con passo caracollante da sbruffoni che non mascherò per nulla la mancanza di dignità di quella ritirata.

“Conosce quei due?” Chiese Mr O.

“Due ex dell’impresa per cui lavoravo un tempo. Vecchie ruggini. Abbiamo qualche conto in sospeso.”

“Non deve dirmi nulla dei suoi conti in sospeso. Tutti ne abbiamo. Pensa che torneranno a infastidirci?”

“Se sono qui, è perché lavorano per qualcuno dei concorrenti. Non saprei quale…”

“Di questo non deve preoccuparsi. Lo saprò io. Crede che siano stati mandati a metterci i bastoni tra le ruote?”

“Potrebbe darsi…”

“Va bene.”

Ripresero a mangiare. Fu una cena francese: escargots, confit de canard. Mr O prese anche del fois gras. Bevvero vino rosso, un borgogna forse un po’ alterato dalla distanza e dal caldo. Mr O commentò che l’anatra, come la fanno i francesi, è notevole; ma resta un gradino sotto quella cinese. Venturini non era d’accordo, ma per una volta non litigarono sulla questione. Erano al dessert quando alla reception si riaffacciarono quei due. In compagnia di due ragazzine. Dovevano averle caricate nel locale che dava sulla piazza, a due passi dall’albergo. Un bar con musica dal vivo molto frequentato la sera. Mr O diede una lunga occhiata alle ragazze – orientali, verosimilmente laotiane, minigonne cortissime, tacchi alti, trucco pesante – mentre salivano la ripida scala che portava alle camere. Poi si scusò e si alzò da tavola. S’avvicinò al banco della reception e Angelo lo vide confabulare col portiere. Fecero una telefonata dal fisso dell’albergo. Quindi tornò al tavolo.

“Nei liquori, invece, i francesi sono imbattibili,” stava dicendo Mr O, quando arrivò la polizia. Sorseggiava il suo calvados. Gli agenti salirono al primo piano. Cinque minuti dopo ne discesero con quei due e le ragazze.

“Minorenni,” disse Mr O. “Si vedeva benissimo. Basta dargli un’occhiata per capire che gusti hanno.”

Estrasse tal taschino della camicia un astuccio di cuoio, sfoderò un mezzo Cohiba già tagliato, praticò un forellino a un’estremità con un aggeggio placcato d’oro e accese l’altra. Fuori, gli agenti lasciarono andare le ragazze, allontanadole in malo modo dall’albergo. Caricarono i due in auto e li portarono via.

“Non passeranno guai troppo seri,” disse Mr O. “Una notte dentro e domattina saranno espulsi col foglio di via. Non credo che la cosa verrà segnalata nei loro paesi – Italia, giusto? – su questioni del genere sono ancora abbastanza tolleranti, da queste parti.”

 

La mattina dopo il convoglio passò a prenderli di buon’ora. Una mezza dozzina di pick-up e camioncini leggeri con a bordo i tecnici della Compagnia e i subappaltatori thailandesi reclutati da Venturini. Uno di loro possedeva una filiale a Vientiane. Una brutta costruzione di cemento e mattoni grezzi, con copertura in lamiera ondulata, alla periferia della città. La yarda in terra battuta e ghiaia, cinta di rete metallica, faceva da piazzale di stoccaggio attorno a un edificio a due piani, articolato in pochi vasti ambienti. Al pianterreno, nell’open space degli uffici e nel magazzino, sistemarono dei gran tavoli di legno su cavalletti, sui quali stendere disegni e cartografia, disporre attrezzatura tecnica, computer, stampanti; insomma, organizzare gli uffici di appoggio della missione. Al primo piano un lungo corridoio con le stanze che si aprivano a destra e sinistra, come in caserma, avrebbe dato alloggio agli uomini.

Il posto cui erano diretti si trovava a un paio d’ore dalla città. Traversata verso nord l’ampia fascia pianeggiante che costeggia il Mekong, lasciatisi alle spalle basse aree paludose e risaie che s’estendevano piatte ai due lati del rilevato stradale, a un certo punto intercettarono il corso del Nam Ngum. Poco prima della confluenza la strada si biforcava: il tratto principale correva lungo la valle del Mekong, mentre una diramazione secondaria piegava a est, in direzione del confine vietnamita. La imboccarono. Era più stretta e dissestata. Il manto d’asfalto era consunto e pieno di buche. Dopo un tratto semi-pianeggiante che li accompagnò per una ventina di chilometri, la valle iniziò a chiudersi. La strada si strinse ancora e prese a salire, affrontando i primi rilievi. Le pendici divennero sempre più ripide e la strada s’annodò in tornanti che salivano per pareti scoscese, coperte d’un fitto manto vegetale. Sulla macchia pluviale, di un verde intenso e scuro, svettavano alberi d’alto fusto. Di quando in quando la macchia s’apriva e ne emergevano grigi costoni di rocce nude, ghiaioni aridi e picchi affioranti. Pareva un paese completamente diverso, dominato dalla vegetazione e pressoché disabitato, sviluppato tutto in verticale. Bruschi cambi di scenario scandivano lo spazio, ordinandolo in modo differente rispetto all’uniforme piana orizzontale del gran fiume.

Dopo un tratto a tornanti stretti che marcarono un repentino salto di quota, penetrarono in una valle profondamente incisa che oltre la gola s’allargava in un’ampia conca. Quella era l’ansa di Nam Ngum 3, la sezione d’imposta della diga. Parcheggiarono i mezzi in un piazzale alto, in spalla sinistra. Sotto, il fiume scorreva incassato, più basso della strada d’un centinaio di metri. Scesero al greto a piedi lungo un sentiero.

I topografi rintracciarono i capisaldi lasciati dai loro pari che li avevano preceduti. Pilastrini in cemento verniciati a tinte accese, per renderli visibili tra le rocce e la vegetazione. Portavano infisso un chiodo, a materializzare il punto di coordinate e quota note. Dalla testa del chiodo si scende battendo elevazioni e distanze lungo una poligonale d’appoggio, che t’accompagna a situare le opere: l’asse della diga, i portali d’accesso alle gallerie, la fossa della centrale. I geologi risalirono lungo la sponda sinistra, la sola accessibile in assenza di un guado, e prelevarono campioni di terra e roccia. Su quel fianco s’estendevano le zone di cava assegnate al progetto e le aree destinate agli impianti. Subappaltatori e fornitori si sparpagliarono sul terreno a esaminare le rispettive zone d’interesse: i piazzali industriali, il frantoio, la yarda delle officine.

Mentre tecnici e fornitori si disperdevano lungo il greto, Venturini e Mr O vagarono in coppia per il futuro cantiere. Venturini s’era procurato un blocco di disegni e guidava Mr O in cima ad alture da cui lo sguardo poteva spaziare. Apriva i disegni su un masso, li orientava e spiegava le opere: la caverna della centrale, le condotte forzate, la torre di presa. Illustrò le varianti della diga. E si coglieva a occhio nudo che finalmente tra quei due era scattato qualcosa.

 

Qualunque cosa fosse quell’amicizia senile mista a complicità, non era molto lontana da ciò che s’augurava la Compagnia per i suoi scopi. Due vecchiacci talmente antitetici. Orientati al fare, tutt’e due, ma su basi diverse. Venturini era un tecnico, un uomo di cantiere trasformatosi in manager e piccolo imprenditore e uomo d’affari. Le sue radici affondavano nel concreto, non credeva a cose che non vedeva e solo su ciò che poteva toccare e misurare basava le sue scelte, concentrate unicamente sull’oggetto dell’affare e i numeri che lo definivano: quanti metri, quanti chili, quanti giorni, quanti dollari. Quindi ignorava la metà del mondo di cui invece viveva Mr O, che si occupava solo del fattore umano, cioè perlopiù di entità astratte: cupidigia, vanità, ambizioni e congetture ad esse correlate. Da mezzo mafioso del far-east privo di qualunque istruzione, s’era fatto un nome grazie a un’indubbia abilità nel leggere caratteri e tessere rapporti, associata a un’oscura energia, una specie di fuoco che gli bruciava dentro e ne faceva una piccola forza della natura. A lui l’oggetto dell’affare non interessava, badava solo alla sua forma. Occuparsi di dighe, di commercio del legname, di oil&gaz o di trasporti navali era lo stesso; tutti campi nei quali, in effetti, faceva soldi; e, lavorando sugli uomini anziché sulle cose, contava più sui margini d’incertezza che sulla precisione. Le differenze tra loro, il fatto d’essere convinti – a ragione – di trovare l’un nell’altro un rivale quanto a consulenze commerciali per la Compagnia, spiegavano i loro scontri. Ma l’improvvisa sintonia?

Certo, due figure antitetiche sono anche complementari. Le divergenze che li avevano portati a contrapporsi su tutto, per una sorta di campo magnetico innescatosi lì a Vientiane ruotavano, iniziando a convergere. Fosse stato il rimpicciolimento indotto da quel paese marginale; o la prudenza e il pudore dell’atmosfera ex-coloniale francese; o piuttosto l’atto impulsivo che aveva spinto Mr O a difendere Venturini contro quei due; o forse anche la visita al sito-diga, la vicinanza del luogo del fare… Quale che fosse, di questa combinazione di fattori, quella che determinò il mutamento dei rapporti, fatto sta che i due vecchiacci divennero quasi amici. Lo studio dell’offerta ne avrebbe certo beneficiato.

 

Si decise quindi di condurlo lì, a Vientiane. Visto l’effetto del posto, lo scopo della missione – inizialmente limitato a qualche giorno sul campo a raccogliere dati tecnici e commerciali e stabilire contatti con le autorità – fu esteso. Si trattennero in Laos per quasi un mese, accampati nella filiale del subappaltatore, attorno a rozzi tavoloni disseminati di carte. E per tutta la durata dello studio e della permanenza laggiù, la sintonia tra Mr O e Venturini parve reggere: incontrarono insieme le autorità e i membri della commissione in visita a Nam Ngum 3, oltre a diversi esponenti della nobiltà locale; tessero congiuntamente la loro tela e quando alla fine l’offerta fu presentata, tutti ebbero l’impressione che fosse un’offerta ben congegnata.

All’apertura delle buste, il prezzo della Compagnia risultò essere il più basso, di un pelino inferiore al lowest bidder cinese – tutte cinesi, le altre cinque imprese che partecipavano alla gara. Una volta dissigillate le buste, con la lettura pubblica dei prezzi, si aprirono le danze commerciali che avrebbero accompagnato le successive due settimane, nel corso delle quali la commissione avrebbe esaminato gli altri aspetti delle offerte – quelli tecnici, contrattuali, finanziari – per emettere il verdetto finale e aggiudicare l’appalto. Per seguirle, Mr O, Venturini e Angelo si ritrasferirono a Bangkok, dov’era insediata la commissione e dove risiedevano tutti i decision maker della questione. E non appena rientrati a Bangkok, la sintonia tra Venturini e Mr O tornò a rompersi.

Mr O pretendeva che Venturini contattasse subito Mr Choi, il grand’uomo che aveva promesso il suo appoggio. E quando Venturini provò a farlo, e il primo giorno non ci riuscì, e non ci riuscì nemmeno il secondo, Mr O cominciò a innervosirsi. Nei giorni seguenti – malgrado tutti i tentativi che Venturini fece, presentandosi più volte di persona al suo ufficio e tentando persino un’imboscata serale nei dintorni di casa sua – Mr Choi non si fece mai trovare ed eluse tutte le poste. Sicché a quel punto fu abbastanza chiaro quale piega stesse prendendo la faccenda.

Allo scadere delle due settimane la commissione aggiudicò l’appalto all’impresa cinese che poi in effetti costruì la diga, esigendone un piccolo sconto che l’allineasse al prezzo offerto dalla Compagnia. Nessuna delle cose che contarono durante quel mese di lavoro sopravvisse al suo deludente risultato. Certo non la strana amicizia tra Venturini e Mr O – che ripresero a beccarsi duramente, rinfacciandosi a vicenda la responsabilità dell’insuccesso – e ormai neanche loro due in carne ed ossa, visto che saranno entrambi morti da tempo.


Seconda parte. Fine.

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