Franco Avicolli
A proposito di "Dorsoduro e dintorni"

Resistenza veneziana

Il nuovo libro di Paolo Puppa è un diario di vita quotidiana a Venezia. O, meglio, di quel che resta di una città perduta dietro all'illusione del "turismificio" di massa

Arguzia e ambiguità sono due note del concerto melodico della venezianità e in Dorsoduro e dintorni, di Paolo Puppa (Cierre Edizioni, 204 pagine, 14 Euro) se ne sente l’eco. Chi ha già seguito le 22 tappe del viaggio attento e lucido dell’autore sulle pagine di Ytali, la rivista plurale on line che della realtà lagunare offre una saggia lettura, può entrare ora nella qualità di un’unica opera dove le voci, pur continuando a mantenere la loro singolare valenza, appaiono in forma corale e danno un’immagine di  Venezia tutt’altro che retorica, riattualizzata sullo sfondo dell’antica Dominante, con  il ricorso alla quotidianità fatta di abitudini, abilità, conoscenze, comportamenti in cui è depositata una cultura esperienziale, collettiva e modulare, amalgamatasi nel farsi partenogenetico dell’urgenza.

I tempi sono quello che sono e Puppa è consapevole dell’incombenza celebrativa in agguato e perciò chiarisce, in apertura, con “Tanta salute: il teatrino della Regione Veneto”, che egli è estraneo a quel gioco e la sua Venezia non ha nulla a che vedere con le “meteoriti informatiche”, di cui la Regione Veneto offre un saggio con un filmato che ha “guardato fino in fondo”, in cui si mostra “una città che non esiste” e lascia “allibiti.”

All’immagine di una Venezia narrata senza entrare nel miracolo della sua singolare esistenza, Paolo Puppa risponde con la personale, veneziana arguzia che parte da lontano, dal farsi complesso delle cose, dai loro tempi che sembrano lenti perché la venezianità ama sostare nel dettaglio, sentire la presenza dell’acqua e, insieme, la sua carezza sull’imbarcazione che scivola. E affida il compito al dialogo che intesse con i protagonisti odierni con cui ricompone il variegato tessuto di una città in cui il presente è tritemporale ed egli stesso è personaggio di una vicenda comune che si chiama Venezia.

Si comincia da questioni intime, tanto per confermare chi è che parla, se crede o non crede in Dio, tanto per dire che non è Venezia ad essere in questione; si segue con la mappa del territorio tra la chiesa degli Scalzi la parrocchia di San Trovaso, i Carmini e i Gesuati e con l’aggiornamento della situazione familiare dove ha fatto il suo ingresso regale il “nipotino ginevrino Matisse”, in visita con il padre/figlio medico in Svizzera. Il parroco non è più quello sonnecchiante di una volta, ma il giovane Valentino Cagnin, nato a Mirano l’11 agosto del 1982, con cui si parla di chiesa e di fede e, perché no, anche di fatti e misfatti della chiesa veneziana e di amori personali. E non mancano i numeri impietosi della città che si va riducendo in modo drammatico perché, le tre parrocchie affidate a don Valentino composte di “circa quattro mila unità, me compreso”, sono soltanto un quattrocento fedeli con quarantacinque battesimi, in due anni, e novanta funerali. Paolo Puppa vorrebbe conversare sulla santità, la purezza e gli scandali “emersi nelle Chiese del mondo”, ma si astiene perché “sarebbe una mancanza di rispetto». E si rifà divagando su cose di teatro e di Cesco Baseggio, tanto per ricordare che Venezia, comunque la si voglia guardare, è pur sempre una scena e uno spettacolo della vita, dove ciò che accade è parto di incontri, del muoversi nella storia, in un tempo che ha i tre volti di Tiziano.

Sulla scena, uno dopo l’altro, entrano i protagonisti della vita della città, sono avvocati, “un mestiere redditizio”, sottolinea, e veneziani e, finanche ebrei, ed eccone uno invischiato o liberato da “una enne… caduta nel passaggio in laguna per distinguersi da omonimie fastidiose” (Non è forse ambigua Venezia?). Ma quanti sono gli avvocati a Venezia? Duemila e qualcosa… Mostruoso.

C’è la possibilità di salvarsi nell’accogliente Libreria Bertoni, “una stranezza nel terzo millennio”, o conversare con “Augusto Mazzon, gran fotografo”,  che è “stanco di pagare affitti esosi” e invita a fuggire “alzando la voce, ma è se stesso il primo che deve convincere”. I personaggi sono veri e chiamati con il loro nome, come Piero, falegname, figlio di Giuseppe Carraro, detto Giulio, anche lui falegname. Ma tutti loro non sono lì per caso o apparsi dal nulla, perché Paolo Puppa conosce il falegname da quando “s’era bloccata la porta… Lui è venuto, coll’aria di un medico specialista, ha guardato imperturbabile quel disastro, se l’è portato via e poi è tornato pochi giorni dopo riconsegnandocela più nuova di prima”. Perché Paolo a Venezia ci vive, non è un turista in cerca di emozioni prestate, lui vive la quotidianità di “Aldo Trevisanello, detto anche Tromba”, musicista e ora “Elogio della lentezza”, per le sue gambe malferme, che “trasuda la mia Venezia da tutti i pori della pelle, dalle rughe del volto, dalla voce mansueta e accorta, dai tanti, infiniti saluti che gli rivolgono di continuo i passanti.”, si sfoga in uno slancio sentimentale d’appartenenza. Ma è per ricordare che a Venezia vivono persone, ora, oggi, nel tempo del Papa Leone XIV, anche lui eco e portatore di una storia che vuole continuare.

Il tutto nel senso più neoplatonico possibile proprio perché, come scrivono Humberto Maturana e Francisco Varela, la narrazione è la coscienza del vivere e la biologia ha imparato a dirsi e a pensarsi nella conoscenza della conoscenza, la dimensione complessa della natura nel tempo della fisica quantistica e dell’infosfera che collocano Paolo Puppa nella natura di Venezia nel 2025, dove Venezia dà vita al sogno e al racconto. Ma che cosa è la realtà, Venezia o il racconto che essa suggerisce? Essa è arguta e ambigua, la sua dimensione è almeno doppia. La sua esistenza è fatta di sostanze che non possono sfuggire ai sensi e alle molte memorie organiche dell’essere biologico. Il ponte di Rialto è architettura e ragione, è degli artefici strutturali e di chi lo ha voluto. Ed è di chi lo guarda ai nostri giorni e pensa al mondo con quella immagine e quella struttura.

Dorsoduro e dintorni propone una Venezia negata dal mondo che ne considera solo l’uso, al modo del nostro tempo frettoloso che guarda agli esiti e cancella cinicamente i percorsi in cui l’esistenza diventa vita.


Accanto al titolo, Venezia 1960, di Giulio Corinaldi. Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA)-donazione Corinaldi, Firenze.

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