Sergio Buttiglieri
Al Teatro San Carlo di Napoli

Le donne di Donizetti

Damiano Michieletto, con la direzione di Riccardo Bisatti, riporta in scena “La fille du régiment” di Gaetano Donizetti e ne fa un apologo sulla diversità di genere

La fille du régiment, opera di Gaetano Donizetti scrisse a 43 anni, ebbe un debutto infelice, nel 1840, a Parigi, anche a causa di una campagna stampa poco favorevole all’insediamento del grande compositore nella capitale francese. Persino Berlioz ne parlò in maniera ostile in una sua recensione dell’epoca, accusandolo di aver riutilizzato in questa Fille la musica di un’altra sua opera del 1936: Betly.

Donizetti smentii totalmente questa accusa. Ma l’atmosfera era radicalmente contro la sua attività a Parigi. Sempre Berlioz sosteneva: “Queste sono le opere che nel giro di un anno saranno scritte o rielaborate dallo stesso autore! Il signor Donizetti ha l’aria di volerci trattare da paese conquistato, la sua è una vera e propria guerra di invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti”.

Eppure la Fille dopo quell’esordio infelice ottenne un successo sempre crescente, tanto che ai primi del Novecento le sue recite all’Operá-Comique superavano il migliaio: un primato assoluto in quel teatro, per un’opera di un compositore non francese.

L’edizione della medesima opera che abbiamo visto a Napoli al San Carlo, poche settimane fa, ci ha fatto riassaporare questo splendido lavoro grazie alla pregevole direzione musicale di Riccardo Bisatti, ma soprattutto all’accurata regia di Damiano Michieletto che ha saputo immergerci nell’essenza di questa storia donizettiana: “Marie è una ragazza abbandonata, che cresce da sola, senza conoscere le sue origini e che lotta per affermare la sua libertà. Questa è un tema che riguarda l’uomo da sempre, il bisogno di essere se stessi e la consapevolezza che solo nel momento in cui tu puoi essere te stesso e hai rispetto di te stesso potrai essere felice”.

Oggi la storia di Marie figlia adottiva di un reggimento militare, diventa senza troppi sforzi uno spunto per riflettere sul concetto di genere come costruzione a partire dal piano musicale. La versione della femminilità di Marie è trasgressiva perché costruita attraverso una serie di atti e gesti che rispondono alle aspettative del mondo militare. Ma poi venne catapultata dentro le regole di una casa dove il modello che le viene presentato e imposto è quello di assumere la condizione femminile di brava ragazza e rispettare le etichette volute dalla società. Lei non ci sta dentro queste etichette e le fugge. Non sa chi di è figlia, non sa da dove proviene… non conoscere la tua origine ti fa sempre dubitare della tua identità. Marie pare dire: “Io mi sento come una bambola a cui vogliono mettere un vestito, ma non so veramente chi sono, e sono triste”.

Nel ruolo di Marie il regista ha voluto Pretty Yende. Il soprano riesce a gestire opportunamente il carattere variegato del personaggio. Il ruolo prevede momenti di trasporto emotivo e di irresistibile verve, affrontanti dalla cantante perlustrando agilmente, e con melodica flessibilità, i momenti virtuosistici della scrittura vocale.

Quel processo di trasformazione cui la zia/madre le impone crea in lei una tristezza, una nostalgia per questo suo passato.

E Michieletto evidenzia egregiamente l’altro fondamentale personaggio della Fille: Tonio. Impersonato da Ruzil Gatin. Il tenore affronta in modo più che accettabile il ruolo.
Un ragazzo tirolese che vive anche lui in campagna nei boschi. E nasce questa storia d’amore. Perché lui riconosce in Marie una che come lui fugge dalle etichette. Tonio è un naive, non fa parte di quel mondo di soldati, ma pensa che l’unico modo per conquistare Marie sia quello di diventare come loro e di mettersi una divisa. Quindi anche lui assume un’identità, un’etichetta che non gli appartiene. Diventa soldato per conquistare Marie, per essere qualcuno che per la società va bene.

In realtà il loro amore non ha bisogno di etichette, non ha bisogno di avere un vestito che vada bene per la società. L’amore è irrazionale. Alla fine loro si liberano di questi vestiti. Tonio butta via il vestito da militare perché non é un militare, e Marie quello da damina perché non è la sua identità. Si ritroveranno insieme in un amore che va oltre le definizioni, le etichette.

Nel ruolo di Sulpice, il baritono Sergio Vitale. Luminosità timbrica, nobiltà della condotta vocale e raffinatezza del ricco fraseggio, costantemente proteso alla risoluzione delle necessità sceniche del ruolo, consentono a lui di restituire un notevole ritratto del bonario sergente che per fortuna arruolerà Tonio.

Quello che ci vuole comunicare il regista è che noi tendiamo sempre a spiegare, etichettare l’amore, quando invece sappiamo che forse è l’unica cosa veramente irrazionale e potente e anche non spiegabile che va oltre tutte le etichette.

L’opera è divisa in due parti molto, molto nette: la prima parte mostra una vita come all’aria aperta, una vita “fuori”, una vita dentro un interno a un mondo naturale, selvatico, pieno di odori, anche sporco in qualche modo.

E poi dall’altra parte la vita dentro un interno, quindi con una ritualità, con “decoro” con una chiusura che però per Marie diventa morte, diventa quello da cui lei vuole fuggire. È questa è la dicotomia forte della storia, cioè come lei vive in questo passaggio, essendo una bambina che é stata sradicata, con un mistero intorno alla sua nascita che gradualmente viene svelato.

E a raccontare questa storia i costumi pensati da Michieletto contribuiscono molto.

Mentre la scenografia è abbastanza essenziale, i costumi, sontuosi ed eleganti, sono molto dettagliati e disegnati da Agostino Cavalca. Quello che indossa Marie nel castello è veramente da bambolina, appare proprio per rimarcare questa volontà  di farla entrare in uno stereotipo. Le altre sono divise ma in qualche modo restituiscono il fatto che si sta all’aria aperta.  C’è anche una scelta di colori ben precisa. Michieletto ha saputo creare come dire un contatto tra una scena molto grafica e dei costumi molto ricchi., tenendo un periodo storico preciso che gli permette anche di avere un modo leggero e divertente per raccontare.

Marie che nella prima parte è accolta dal reggimento vestendo i loro panni poi viene sradicata e portata in un contesto dove non può decidere nulla, deve sposare un uomo che non è l’uomo che ama e deve vestire in un modo che non è quello che le appartiene.

Le donne spesso sono trattate in questo modo, devono rispondere a un modello che la società mette loro addosso. Ci si aspetta da loro che siano quello che la società vuole che loro siano. Marie si ribella riesce a ribellarsi, e il lieto fine è dato anche dal fatto che sua madre riesce ad avere un “movimento umano, a rinunciare a costringerla dentro una forma che non è quella che vuole e a lasciarla libera.

E per raccontare tutto ciò il regista utilizza un linguaggio che a livello scenico diventa una perfetta metafora.

Le scene – progettate da Paolo Fantin e nitidamente illuminate da Alessandro Carletti – restituiscono, attraverso un fondale illustrato, gli innevati paesaggi del Tirolo. Gia all’inizio c’è questo tessuto di plastica che rappresenta un bosco, e i personaggi in scena si nascondono dietro questo tessuto che poi cadrà per mostrare la struttura della scena, scena che poi nel secondo atto crolla proprio a smontare la facciata., a smontare l’apparenza e questo è un modo moderno, secondo il regista, per entrare nella drammaturgia della storia. La commedia è un genere leggero che non fa prevalere la sofferenza e il dramma, ma parte sempre da una sofferenza che però viene trattata con ironia, con leggerezza.

Non c’è un altro modo, altrimenti, potrai essere anche vincente, potrai essere quello che gli altri si aspettano che tu sia, ma questo non significa libertà.

Rispetto al mio debutto, ci racconta Damiano Michieletto, con questa opera qualche mese fa a Monaco di Baviera ho introdotto in scena Marisa Laurito

(Duchesse de Crakentorp), “Con lei abbiamo lavorato per inventare una lingua che mescola un po’ il francese un po’ il napoletano. È una nobile decaduta che fa credere qualcosa che non è vero e alla fine sarà presa a calci e mandata via.   Un modo che può restituire allo spettacolo un tono di commedia in maniera elegante e non prevedibile.” soprattutto per la riuscita presenza di momenti collettivi danzati, coreograficamente organizzati da Thomas Wilhelm: il momento dell’Ouverture, per esempio, viene trasformato con successo in un «antefatto» pantomimico. Il coro, preparato da Fabrizio Cassi, risolve ottimamente gli interventi di carattere soldatesco e il momento «religioso» dell’atto primo: Sainte Madone!

Buona anche la prova, vocale e scenica, del mezzosoprano Sonia Ganassi, che, nel ruolo della Marquise de Berkenfield, offre un’accettabile interpretazione della Cavatina nell’atto primo du Pour une femme de mon nom.

E anche questa volta il regista ci ha affascinato con la sua maestria. Con la sua pregevole capacità di rileggere i capolavori del melodramma italiano portando inedite soluzioni di grande raffinatezza.

Non perdetevi l’Aida che ha appena debuttato a Firenze al Maggio Musicale Fiorentino, sempre con la sua innovativa regia, e questa volta diretta da Zubin Mehta, in scena fino al 1° luglio.

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