Letterature diverse
Il poeta scomodo
Ritratto di Euphrase Kezilahabi, il più importante intellettuale e scrittore di lingua swahili: un maestro assoluto di libertà e di provocazione letteraria e politica
Nell’ambito degli appuntamenti sulla letteratura dei paesi africani, in collaborazione con i professori di africanistica dell’Università Orientale di Napoli, abbiamo intervistato il docente di letteratura swahili e lingue bantu, Roberto Gaudioso, che ci parla di Euphrase Kezilahabi (13 aprile 1944 – 9 gennaio 2020) che è stato uno scrittore, poeta e studioso tanzaniano. Nato a Ukerewe, Tanganica, ora nel distretto di Ukerewe della regione di Mwanza in Tanzania, ha lavorato presso l’Università del Botswana, come professore associato presso il Dipartimento di lingue africane, oggi Dipartimento culturale africano.
Mi parla un po’ della vita di Kezilahabi?
Euphrase Kezilahabi nasce nel 1944 a Namagondo sull’isola di Ukerewe nel Lago Vittoria, in Tanzania. È lo scrittore che ha rivoluzionato la letteratura swahili sia dal punto di vista stilistico sia dal punto di vista delle idee. È il primo scrittore swahili che utilizza il verso libero e il primo a trattare tematiche scabrose senza un giudizio morale. È uno scrittore progressista, la sua poetica è tutta incentrata sull’emancipazione, non solo economica e culturale dai colonialisti, ma anche dal conservatorismo, lui lo definisce fascismo, africano. È stato professore presso l’Università di Dar es Salaam in Tanzania e l’Università di Gaborne in Botswana.
Perché ha rivoluzionato la poesia swahili?
Alla fine degli anni ‘60 era studente di Farouk Topan, in quel periodo iniziò a scrivere e a pubblicare per alcune riviste. All’inizio degli anni ‘70 decise che aveva abbastanza poesie da poterle pubblicare. Si rivolse a Topan che comprese l’alto valore di questa poesia e la cifra di originalità che emergeva non solo dal contenuto, ma anche dalla forma. Topan capì che la nuova generazione non solo aveva bisogno di parlare di temi attuali, ma anche di farlo a modo loro, in un modo nuovo. Topan decise di scrivere una premessa al libro di Kezilahabi per difenderlo. Il verso libero di Kezilahabi aveva una costruzione ritmica forte che accompagnava effettivamente il senso di ogni poesia. Inoltre, in questo libro c’erano diverse poesie come Bikira mweney huzuni (Vergine addolorata) potenzialmente scandalose, la vergine era addolorata perché era vergine. Qualche anno prima avevano censurato il primo romanzo di Kezilahabi Rosa Mistika perché ritenuto scabroso. Erano velate, ma comunque presenti, critiche al governo e alla religione, ma soprattutto la cosa più scandalosa era questa vena critica e dolorosa a meno di dieci anni dall’indipendenza. Fu criticato e gli si dicevano: “Abbiamo avuto l’indipendenza, perché ti lamenti?” Nell’ultima poesia, in forma allegorica, parla della classe dirigente africana come una forma ibrida, mezza colonialista e mezza africana. Kichomi, questo è il titolo della sua raccolta del 1974 vuol dire dolore dilaniante, trafittura.
Ha scritto anche romanzi, quali sono i più significativi?
Sì, ha scritto diversi romanzi. Sicuramente il primo Rosa Mistika (1971) è quello più noto al grande pubblico proprio perché fu censurato. È la storia di Rosa, una ragazza di Ukerewe che dal villaggio, con un’educazione tradizionale, va a studiare in città. Rosa si trova impreparata alla conoscenza affettiva, si perde in una serie di relazioni e rapporti sessuali al punto che la sua stanza viene chiamata dagli altri studenti “laboratorio”, dove fare esperimenti sessuali. Questo elemento viene trattato da Kezilahabi senza giudizio morale, anzi anche la scelta della parola “laboratorio” indica che i personaggi tutti (Rosa compresa) cercavano un certo tipo di conoscenza. Ovvero, Kezilahabi mostra come l’educazione tradizionale non bastava più in un contesto diverso, come quello della moderna Tanzania, e che l’educazione affettiva e sessuale sarebbe stata importante. Forse il romanzo più significativo di Kezilahabi è, però, Kichwamaji (Il folle, 1974). È un romanzo esistenzialista, dove il dramma generazionale del protagonista diventa esistenziale e universale. L’acume filosofico di questo romanzo è profondo e coinvolge, attraverso i dialoghi e le azioni, tutti gli aspetti dell’esistenza. Questa è una cifra poetica di Kezilahabi, in tutti i suoi romanzi, non approfondisce l’aspetto psicologico dei personaggi, lascia più che siano le azioni e i dialoghi a parlare. Questo è vero anche in uno dei suoi ultimi romanzi col quale ha rivoluzionato anche il genere narrativo, Nagona (1987). Nagona è un nome femminile kerewe, il protagonista, il romanzo è scritto in prima persona, deve raggiungere Nagona, ma sembra non riuscirci mai. È un romanzo con elementi allegorici e metaforici molto forti, c’è un simbolismo ispirato alle tradizioni africane e la forma è ispirata alle narrazioni orali. Alcuni critici hanno parlato di realismo magico, ma già dall’inizio il lettore viene gettato in un mondo “magico” che deve decifrare per proseguire il viaggio, che diventa personale in quanto il protagonista è “io”, quindi lettore e scrittore si fondono. In questo viaggio si passa dalla città dove si parla la lingua del silenzio ai ricordi col nonno, dal mondo ultraterreno dove si incontrano i filosofi alla frantumazione dell’io seguendo le teorie di Freud, dal rincorrere la gazzella alla grande danza dove muore gran parte dell’umanità, ovviamente è un tentativo di palingenesi.
È stato anche in importante intellettuale, mi parla delle sue idee?
Sì, idee scomode. Gli piaceva provocare. Tutto il suo pensiero girava attorno all’emancipazione e alla libertà da ogni forma di asservimento collettivo e individuale. La sua idea della cultura e del tempo, per esempio, la potrei sintetizzare con questa frase che ha scritto “kisichobadilika kimekufa” ciò che non cambia è morto. Voglio citarti qui una delle sue idee più controverse: “L’Africa è stata afflitta da filosofie dell’origine. Nel mondo occidentale, questa stessa filosofia è culminata nella Germania nazista, e conosciamo le conseguenze di tale visione. Ciò che è più antico non è necessariamente ciò che si avvicina maggiormente al nostro vero Essere, né possiede un mandato per governare il presente. Una filosofia delle origini è un’impresa fascista. Le filosofie dell’origine rappresentano un altro errore. Il terzo errore riguarda il moralismo. In passato abbiamo dato troppa enfasi al moralismo e allo spiritualismo. Abbiamo osservato che, attraverso la glorificazione di qualità tradizionali illusorie della società africana, i nostri leader creano mitologie di un passato magnifico e si rifiutano di confrontarsi con quelle stesse istituzioni che, per loro stessa natura, sono retrograde.” Con lo stesso acume trattava gli effetti culturali e le limitazioni della libertà date dal colonialismo.
Lo hai conosciuto personalmente, che ricordi hai con lui?
L’ho conosciuto personalmente solo molti anni dopo l’inizio della mi ricerca sulla sua poetica. Mi ha ospitato tre settimane a Gaborone, la capitale del Botswana, dove insegnava all’Università Letterature Africane, Critica Letteraria, Filosofia Africana e Estetica. Gli avevo chiesto di intervistarlo per la mia ricerca di dottorato sulla sua poetica. Sono stati giorni molto intimi, immerso nella sua vita famigliare, scandita tra il nostro lavoro il mattino e pomeriggi in cui passavo tempo con la famiglia. Gli sono molto grato per l’ospitalità, negli incontri seguenti mi ha sempre mostrato un attaccamento che andava oltre le parole. Kezilahabi era un uomo molto silenzioso, ma in diverse situazioni mi ha lanciato sguardi di intesa profondi. Come in questa foto che condivido con voi. Però, forse, più che alle conferenze mi ricorderò sempre quando abbiamo diviso un pesce a Mwanza e poi mi ha invitato a trascorrere il Natale a Namagondo, al suo villaggio nativo. Lì Pantaleo, suo fratello maggiore, che nel frattempo avevo conosciuto durante le mie ricerche sul campo a Ukerewe, ha cantato e suonato per me l’enanga, stupidamente non l’ho registrato, ma quella manciata di minuti resta impressa nella mia mente.


