Un racconto di "realismo magico"
Il solstizio
«Restava il falò, rito essenziale per lasciarsi alle spalle i brutti pensieri del passato e celebrare la rinascita. Raccolse un ciuffo di sterpaglie al bordo della spiaggia, fece una buca nella sabbia e ce le ficcò dentro»
Stefano Finzi Vita, l’autore di questo racconto, è allievo del corso di scrittura della Scuola Orlando tenuto da Andrea Carraro, Filippo La Porta e Sebastiano Nata. È romano, ex docente universitario di matematica alla Sapienza, ha scoperto da alcuni anni il piacere di scrivere, affascinato dalle straordinarie capacità delle parole di combinarsi insieme per creare storie e trasmettere emozioni.
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Il solstizio d’estate, una giornata speciale, una di quelle in cui cerchi di ridare significato alla tua vita, attaccandoti ai segnali che la natura ti trasmette. Era per questo che quel tipo di mezza età era sceso sulla spiaggia, e ora passeggiava scalzo sull’arenile guardandosi intorno. L’estate stava arrivando, ma il tempo pareva non volerla ancora accogliere. Fitte nuvole grigie oscuravano il cielo, e soffiava un venticello freddo che spingeva le onde del mare a schiantarsi con più forza sulla riva.
Ecco quindi già dei primi segnali, non molto incoraggianti. Un solstizio senza poter vedere il sole nella sua massima potenza, e una spiaggia deserta. Lui lo festeggiava però ogni anno, ed era legato alle tradizioni. Nel giorno più lungo dell’anno, con la notte più breve in cui dicono che il Sole si sposi con la Luna, e le streghe si riuniscano attorno a un noce per le loro danze, sono tanti i riti propiziatori che la gente ripete: ammirare il tramonto e le stelle, il primo bagno in mare, camminare scalzi sull’erba, fare un picnic ed esercizi di Yoga nella natura, accendere un falò.
Niente tramonto e stelle stavolta, purtroppo, ma in fondo anche le nuvole meritavano di essere ammirate, nel loro continuo inseguirsi e intrecciarsi tra loro. Lui le guardava, prima di riportare sconsolato lo sguardo giù verso la sabbia. Ogni tanto si girava indietro, stupito da quella opprimente solitudine. Era il tema ricorrente della sua vita. Nuvole dense, onde travolgenti, tanta solitudine, e tutto quello che aveva fatto era stato scritto sulla sabbia, senza lasciare tracce, almeno all’esterno. Perché dentro di sé invece ce n’erano, altroché, addirittura solchi.
Si avvicinò all’acqua e ci immerse i piedi, solo per sentire un brivido di freddo salirgli fino alla testa, un modo veloce per scuotersi dalla malinconia. Non era il primo bagno della stagione, ma ci assomigliava. Scalzo ci stava già camminando, sulla sabbia e non sull’erba, ma le sensazioni erano piacevoli, nonostante l’umidità.
Lungo l’arenile solo file di ombrelloni chiusi. Si avvicinò ad un pattino e ci si sedette sopra. Neanche un minuto dopo un forte ronzio avvolse la sua testa. Sbracciò con violenza per liberarsene, in tempo per vedere un grosso moscone poggiarsi lì accanto. Muoveva le antenne avanti e indietro, come stesse valutando quando partire per un nuovo assalto. Calliphora vomitoria, il suo nome scientifico, lo sapeva perché appassionato di insetti. Ma la cosa buffa è che si fosse messo proprio lì, su di un altro moscone, come appunto chiamano il pattino lungo l’Adriatico. E accanto a lui, a cui davano spesso del moscone, perché alle donne sapeva solo ronzare intorno, prima di venirne allontanato con fastidio.
Per picnic e Yoga non c’erano le condizioni, ma a un compromesso aveva già pensato. Aprì lo zainetto che aveva sulle spalle, ne tirò fuori uno yogurt e un cucchiaino e cominciò a gustarselo lì seduto, cullato dal rumore del mare. Ed è proprio al mare che rivolse una domanda: la sua vita era ormai una gabbia senza più vie di uscita? Aveva appena poggiato il bicchierino vuoto dello yogurt sul pattino che un grosso gabbiano atterrò a pochi metri da lui, attratto dalla possibilità di qualcosa da assaggiare. Pazzesco, ecco la risposta: gabbiano, gabbia no! C’erano ancora speranze. Il gabbiano sembrò sganasciarsi dalle risate prima di volare via.
La natura stava provando a parlargli, e allora si avvicinò alla riva. Un tarlo gli rodeva nella testa, la donna di cui si era invaghito era improvvisamente sparita lasciandolo nel dubbio. Usando il cucchiaino scrisse sulla spiaggia bagnata la sua nuova domanda:
ANNA PERCHE’ NON MI CHIAMI MAI?
Un’onda si infranse davanti a lui e le sue propaggini avanzarono verso la scritta cancellandone alcune parti, prima di ritirarsi rapidamente. Provò a rileggere quanto rimasto: __PERCHE’ NON __MI __AMI__, ma certo, ecco perché. Credeva di piacerle, ma evidentemente aveva preso un granchio. Neanche un attimo dopo, a conferma, ecco un grosso granchio attraversare la sabbia diretto verso il mare. Lo prese tra due dita per guardarlo meglio: si agitava rivendicando la sua libertà. Gli chiese scusa e lo riappoggiò sulla sabbia: ne aveva presi già troppi nella vita, non gliene serviva un altro.
Più avanti si chinò a raccogliere pure due piccole conchiglie, e le confrontò con interesse: la domanda in lui sorse spontanea, con chi gli sarebbe convenuto di vivere la sua vita? Con chi gli avesse fatto comodo, o con chi gli avesse manifestato un affetto sincero? Scelta non facile.
Restava il falò, rito essenziale per lasciarsi alle spalle i brutti pensieri del passato e celebrare la rinascita. Raccolse un ciuffo di sterpaglie al bordo della spiaggia, fece una buca nella sabbia e ce le ficcò dentro. Poi estrasse dalla tasca l’accendino e gli dette fuoco. Solo pochi istanti e le fiamme si spensero, ma una piccola scia di fumo si sollevò verso l’alto, e a lui ricordò la forma di un punto interrogativo.
Si era fatto tardi, era ora di tornare a casa. Aveva sperato fino all’ultimo di incontrare qualcuno, almeno un pescatore. Invece nulla, niente sole e solo un solitario come lui. Ma in fondo di segnali ne aveva colti, e ormai era consapevole: quel giorno era stato lui il sol tizio dell’estate, ed è quindi da sé stesso che doveva ripartire.
La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.


