“La materia del contendere” di Pontiggia
Il buio e la luce dell’anima
Il nuovo libro di versi del poeta lombardo ci introduce in pensieri e sentimenti che risentono del «transito del tempo, le incertezze del vivere, la fatica del riconoscersi, l’ambiguità che è in noi e ci condiziona». Ma le ragioni della vita e della morte talvolta suscitano epifanie…
In una lirica tra le più struggenti del Diario d’Algeria, Non sa più nulla, è alto sulle ali, Vittorio Sereni invitava a una preghiera per l’Europa in occasione dello sbarco alleato in Normandia, preghiera impossibile a dirsi per chi era lontano e prigioniero: «prega tu, se lo puoi, io sono morto/ alla guerra e alla pace». Lo stesso drammatico invito ci giunge da una lirica, La porta, di Giancarlo Pontiggia: «prega per me, se puoi, prega». Ma dinanzi alla porta dell’“Istmo”, vera porta lignea di età imperiale, che chiude una storia umana di secoli, si apre per il poeta una possibilità di incontro con l’altro, di solidarietà e unione: «perché io sono te/ che mi ascolti». Poeta esistenziale sulla via di Montale, Sereni e Bertolucci, Pontiggia ci introduce col suo nuovo libro di versi (La materia del contendere, Garzanti, Milano 2025) in una poesia profonda di pensieri e sentimenti, una poesia che sente il transito del tempo, le incertezze del vivere, la fatica del riconoscersi, l’ambiguità che è spesso presente in noi e ci condiziona. Per questo la nettezza e la naturalezza del suo dire si velano di chiaroscuro e di ombre, creano sprezzature in immagini di sereno, rivelano memorie, che non si vogliono perdere, delineano percorsi ardui nel procedere dei secoli.
Già in Bosco del tempo (Fenice contemporanea, Guanda, Parma 2005) Giuseppe Conte nel risvolto di copertina osservava la fraternità che legava Pontiggia al suo lettore, invitato a condividere pacate riflessioni elegiache e accensioni liriche in un dettato di alta e sapiente classicità da parte di un poeta «il più “greco” tra quanti scrivono in italiano, il più nutrito di cultura classica». Una classicità la sua che, con Stefano Carrai (Pontiggia e l’antico, in Nel sentire del mondo, a cura di Antonio Sichera, Macabor 2025) non ha nulla a che fare con il classicismo e l’imitazione, ma è sedimento e nutrimento: «se amo il mondo classico, l’Egeo ventoso e dorato, dov’è nata la storia e la filosofia, dove si sono formati i grandi miti di cui ancora ci nutriamo, è perché in quel mondo è qualcosa di profondo che secolo dopo secolo ci commuove e ci nutre» (A Elisabetta Motta, 2016).
Qui, nella Materia del contendere, Pontiggia risale agli interrogativi filosofici di un tempo antico, archetipi che tuttora parlano al nostro pensiero: «Che cos’è cammino, e cosa aria, fuoco, acqua/ pugno di terra, cosa io che scrivo/ e te che leggi» [Che cos’è cammino (Catabasi, 1)]; e in Celebrazioni, addii (Catabasi, 2) la discesa agli Inferi dell’anima («Si protende, l’anima, verso qualcosa/ – un soffio, una piuma, un niente –») è di nuovo cammino, ma oscuro e abissale: «E guardi e preghi/ e senti/ cos’è natura/ e il perdersi». Il tempo, scandito in secoli, con metafore ardite, «scala senza pioli» (Secoli, scale, rupi), «fune stropicciata» (Prima di ogni prima), è durata «che si accartoccia su di sé, sfaglia», sì che gli anni sono solo «la schiuma del tempo che giace» (Piogge, anni), giustificando una forma oppositiva, costruita sull’antitesi, che sembra prevalere nella rappresentazione dell’essere. Ecco l’esergo del libro, da Eraclito: «negli stessi fiumi/ scendiamo e non scendiamo/ siamo e non siamo», mentre il caso sparge i «semi» di una vita che non s’intende né si conosce e genera «rovine».
Le cose entrano nei pensieri con un colore scuro, notturno; la verità non le riguarda perché «brandelli di roba, oboli/ gettati in una stiva qualsiasi» [Mezzo futuro ci cade addosso (La gondola di Liszt)].
Anche il titolo fa risuonare il pensiero del contrasto e di una vana ricerca dell’essenza delle cose e del vero. Era quello su cui si interrogava Sereni nel Posto di vacanza chiedendosi se nome e cosa potevano allacciarsi e farsi poesia tra memoria e realtà del divenire. Pontiggia, in un’ampia lirica narrativa intitolata Racconto d’autunno (Stoffe), ripensando a un momento della giovinezza e all’amicizia tra poeti, quando la vita scorreva intorno «sovrana e indifferente», risuscita dal buio degli anni l’immagine della madre che sfila da un cassetto una stoffa «sgargiante di ori e di azzurri a buon mercato». Eppure il ricordo si interrompe nello smarrimento dei fili di una evocazione che non si conosce né si trattiene: «c’è qualcosa, forse, che mi sfugge/ roba di cui so sempre di meno/ e che pure c’è/ anche se non so di che materia sia/ se ombre o sostanza vera/ e da dove vengano /e come/ e cosa il tempo che ci contiene/ e quel che ci sovrasta».
Troppo arduo il cercare la parola originaria che riveli «l’inizio delle cose» (Un quadrato); che sveli la realtà: «Si nasconde, la realtà, / in un qualche guado di parola» (Un bene sognato). Né è possibile, dice il poeta, tornare a «un’arcadia divina» (Qualcosa) o «eden» o «terra inviolata/ dove non è gemito, né affanni». Al ripensare a un passato che «è stato, e non è forse mai stato»; all’incerto destino del vivere, che accoglie voci turbate, musicalmente aspre e lontane dall’ordine desiderato (‘subbuglio’, ‘ramaglia’, ‘arsura’, ‘rovine’, ‘ombre’, ‘sibili’, ‘stridi’) si affiancano immagini che paiono, con eco montaliana declinata al positivo, socchiudere spiragli di bene, aprire varchi nel «disordine del mondo» [Un presagio, un soffio (Qualcosa)]. Può allora essere un vento che non spazza la nube, che oscura il vero, ma che, soffiando sopra un ponte, lascia apparire un lume, reale come reale è la gioia provata [Cos’è bene e cos’è male (La nube)]; o può essere la voce «che si fa largo/ dentro una chiarità di sogno, che si illumina, / arde», voce che ferma Ciò che rimane; o è lo stesso sogno a suggerire un’emozione che un oggetto, solido, concreto, correlativo oggettivo può rivelare, illuminandosi vivo come fiamma:
Un fuoco
arde da solo, vicino
allo spirito delle cose – una scodella, un dado,
un capitello – ci scaldiamo
a un bene sognato,
crepita
[Un bene sognato]
Sono infine le ragioni della vita e della morte (Anime, stridono) ad aprire lampi e bagliori, dorati, «oasi di luce» che non impediscono il transito, non aiutano a conoscere, ma suscitano epifanie: «Ricordo la dalia di allora, a un passo dalle cose/ e un’anima che stride». Se si manifestano infine, momenti di felicità (E ti invade una gioia che non c’era), questi appartengono, con motivo caro ad Attilio Bertolucci, all’intimità della casa e alla serenità degli affetti: «Delirio d’acqua,/ nel sonno di un cavalcavia./ Poi è luce, e siamo in un giardino di limoni/ neve,/ e si sta bene tra le stanze» (Stanze). Dicono infine che «la pioggia è pioggia, il cielo cielo», mentre si torna «allo scuro delle stanze, e ai lumi che ardono» (E ti invade una gioia che non c’era), vivi nel silenzio di sguardi complici.