Giuliano Compagno
Al Teatro Trianon Viviani di Napoli

Bufera e maleficio

Fulvio Cauteruccio porta in scena il celebre racconto di Pirandello "La patente". Ma non è solo un drammatico ricamo sulla jella

Un’intuizione banale: leggere la novella pirandelliana ancor prima di partire per Napoli, dove la sera stessa al teatro Trianon Viviani, per l’annuale “Campania Teatro Festival” diretto da Ruggero Cappuccio, sarebbe andato in scena Rosario Chiarchiaro, maschera di Fulvio Cauteruccio, rivelata e celata in compagnia di due eccellenti Spalle: Flavia Pezzo e Massimo Bevilacqua. Sfogliando una vecchia edizione de La patente, curata e commentata da Giuseppe Morpurgo, ho provato un crescente disagio. Sì, la narrazione mi pareva, non solo forzata ma inadatta alla coerente costruzione di una novella brevissima al cui interno si ergeva, unico a sé, un protagonista reietto e solitario. Quel che gli stava intorno, infatti, altro non rappresentava se non l’allestimento di una scena vissuta con ferocia e con disperazione da una maschera respinta nel nome di una guardinga falsità.

Insomma era possibile cadere nel tranello di un raccontino banalizzato, i cui rischi non erano certo sfuggiti al grande drammaturgo. D’altronde egli aveva fatto sua un’idea a dir poco illuminante e a dir tutto paradossale, perché Luigi Pirandello era (e rimarrà) il solo vero genio del nostro teatro novecentesco, il solo a dare all’Inconscio e al Rimosso i ruoli che già al suo tempo meritavano personaggi e interpreti dell’esistenza di noi tutti. Eppure, misteriosamente, l’Agrigentino aveva scelto di incominciare il racconto dal giudice D’Andrea, figura di alter ego del Chiarchiaro, magistrato comprensivo e razionale al punto di non dar conto di alcuna superstiziosa manifestazione, e giammai di colpe menagrame.

Ma ecco che la novella prende a contorcersi tra metafore mentali e improvvise soluzioni di un riflettere insonne: “Il pensare così di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo, a qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende.” Andato accapo, persino Morpurgo si sente costretto a sottolineare, non già l’accenno socratico (inesistente), bensì alcune componenti scettiche e agnostiche tali da gravare sullo spirito del giudice.

Da qui trae origine la sfida che Fulvio Cauteruccio pone alla sua stessa regia: egli si trova dinanzi a un testo che presenta non più di 20 minuti recitabili ma che allo stesso tempo contiene un soggetto in grado di scampare persino alla deriva di una superflua introspezione psicologica, insomma di un preludio tanto debole da far rimpiangere le acutezze manzoniane in omaggio a personaggi ben più reali. Per contro, Cauteruccio vuole evitare un paio di furbate: la prima sarebbe quella di allungare il brodo andando a rovistare ancor di più nel subconscio del giudice d’Andrea e nelle sfortunate ansie del protagonista; la seconda sarebbe quella di avventurarsi in un qualsiasi dittico pirandelliano, così immaginando una qualche continuità tra due novelle inaccostabili. Sicché sceglie una terza via, l’unica possibile, letteraria ed evocativa insieme, portando in scena versi, sequenze, note musicali e memorie di un’intimità dispersa… tali e tanti tocchi d’artista da cambiare discorso e restare con i piedi per la terra di Rosario Chiarchiaro. Per questa ragione vale da preludio la scena che aveva aperto Questa è la vita, film di Luigi Zampa del 1954 dove tutto incarna a puntino il suo jettatore pirandelliano. Per naturale soggezione, Cauteruccio ben si guarda dall’imitare Totò e si limita a prendergli trucco e vestiti.

E si va a ritroso, fino all’annuncio malaugurante di una tempesta che nel 1939 colpisce tutti indistintamente; in una pausa di camerino, Renato Rascel scrive i primi versi di È arrivata la bufera, perché ormai la guerra era nei fatti e nelle disgrazie universali. E si risale ancora addietro, a La porti un bacione a Firenze, canzone che accarezzò la poesia grazie a un incontro, avvenuto a Montevideo, tra Odoardo Spadaro e una giovanissima ragazza emigrata, che baciando sulla guancia il cantante, si fece promettere di dedicare alla Firenze che tanto le mancava un identico moto d’affetto. In fondo è così che si avverte la nostalgia dei luoghi; quel dolore che i tedeschi definiscono Heimweh coglie tutti noi che proveniamo dal Meridione del teatro e delle lettere, e mescoliamo la buona sorte e la sventura d’aver lasciato i luoghi dei nostri avi o di non esservi mai nati, quando all’Italia serviva la potenza ricostruttrice dell’ingegno napoletano, siciliano, calabrese… Fulvio Cauteruccio, e con lui suo fratello Giancarlo, non hanno fatto eccezione, per nostalgia e per creatività, poiché certi sentimenti generano forti vocazioni.

E allora la memoria si fa più forte nel ricordare nomi che al pubblico non diranno granché e in ogni caso verranno pronunciati proprio sul palcoscenico di un teatro napoletano primi ‘900: la mammana Damiana, Don Girolamo, nonna Marietta e Ida, la madre che per un soffio non divenne un soprano di successo…

E se vorranno dirci che Pirandello è altro rispetto a certe antiche storie di malefíci e di malocchio, noi non replicheremo per buona creanza e insegneremo a chi scambia ancora l’arte del teatro con i soliti artifici del neo-nuovismo, che la jettatura era stata inventata Napoli, d’accordo, ma non da un mago di vicolo… da un illuminista napoletano, Nicola Valletta, giurista, musico e letterato, il quale nel 1787 aveva pubblicato Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, ispirata a una commedia di Giuseppe Pasquale Cirillo, I malocchi, di cui Benedetto Croce avrebbe colto la lieve ironia nei confronti di ogni malevolo auspicio.

Quanto al nostro amato Chiarchiaro, il colpo di genio sta tutto nella richiesta che infine inoltrerà al giudice D’Andrea: di una patente che gli conferisca ufficialmente e a norma di legge il diploma di jettatore… e tanto risuona nel finale di Fulvio Cauteruccio e nelle attive presenze di Flavia Pezzo e di Massimo Bevilacqua. Quello sì, era un brano magistrale che pareva scritto per un grande attore:

“Lei mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? E ci sono tante case di giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andare via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? Io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile, e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta di un’intera città! Istruisca subito il processo, in modo da farmi avere al più presto quello che desidero. La patente!”

Non è da poco sentirsi siciliani dopo aver letto questo brano di Luigi Pirandello. Diceva che la sua arte era compassione amara e forse era un sentimento che egli nutrì verso se stesso poco prima di andarsene. Come coloro che vorrebbero e morire nel silenzio del mondo, senza alcun accenno sui giornali, né annunci funebri né partecipazioni. Come coloro che non desiderano essere vestiti ma soltanto avvolti, nudi, in un lenzuolo, che chiedono un carro di infima classe e nessuno ad accompagnarlo: il carro, il cavallo e il cocchiere. Soltanto loro. Che vorrebbero le loro ceneri disperse per sempre o al massimo murate “in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti”, dove era nato Luigi Pirandello.

E non potrà mai passarmi di mente il ricordo di un’oretta pomeridiana trascorsa nella romana via Bosio, a dialogare con Paolo Bonacelli.

Dopo esserci congedati, l’attore mi disse, sorridendo: “Credo che siamo stati seduti sul letto dove Pirandello morì.”


Le fotografie dello spettacolo sono di Alessandro Botticelli.

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