Daniela Matronola
A proposito di "Arsura"

La parola è un sentimento

Emilia Cirillo, nella sua nuova raccolta di poesie, non esita a nominare la malinconia, la violenza e l’indifferenza che non si accorge del dolore

A volte viene voglia di indovinare quale sguardo chi scrive posi sul mondo. Con quali occhi e secondo quali parametri lo osservi. La lettura obbliga a un lavoro di analisi del testo, di interpretazione dei segni lasciati sulla pagina  – cioè diventa, la lettura, un gioco al rovescio: dai segni e da come si relazionano sulla pagina ci si imbarca nella risalita a uno sguardo, a una poetica, a una visione del mondo, e l’indagine consiste anche in uno scandaglio di oggetti e moventi, con l’idea, attraentissima, di cogliere fino in fondo la grana della trasposizione o della traduzione di strumenti e oggetti in un arnese poetico che sta lì a mostrare la nascita di ciò che prima non c’era e ora c’è. Non tanto il mondo che è tutto qui sotto i nostri occhi (a saperlo guardare) ma appunto la sua lettura, corretta dalla lente del sentire di chi poeta. È la semiologia, clinicamente la semeiotica, della letteratura.

Sono un tronco che sente e pena, diceva (vado a memoria) Giacomo Leopardi.

Sì, questo è chi poeta. Chi traduce la vita in parola e anzi la vivifica nella parola sottraendola al suo scorrere ottuso e inerte.

Questa lunga premessa per aprire un breve discorso su Emilia Cirillo, che in genere si presenta a noi con romanzi e racconti, e ora ci viene incontro con un libro di versi, Arsura (Terebinto Edizioni, Anellino 2025, 82 Pagine, 12 Euro), che in esergo si riferisce al primo Montale per segnalarci subito un’ostinazione tipica della natura: il verde che attecchisce e si fa spazio anche in aree desertiche, riarse, appunto, con la disperazione della linfa che vuole scorrere ad ogni costo e portare avanti, schopenhauerianamente, la sua cieca volontà di esistere.

A dire la verità Montale invocato fin da principio è subito discusso, e anche Leopardi.

Pensiamo al montaliano rovente muro d’orto o alla siepe leopardiana: Emilia Cirillo già nelle prime mosse della raccolta oppone l’immagine della sabbia umida, cioè della spiaggia lambita ma anche del deserto in cui pure, a sorpresa, stillano gocce d’acqua – ci sembra quasi di risentire quel drop drop drop drip drop che sentivamo gocciare in What the thunder said (quinta sezione di The Waste Land), un gocciolìo irritante e desolato che però paradossalmente schiuda il sospetto che poi non tutto proprio sia perduto ma che da qualche parte un principio di vita, una linfa nascosta ci sia.

Quest’idea, in Arsura, c’è: c’è la constatazione, il documento (e nocumento), di un inaridimento e di una devastazione che ormai è un fatto, ed è irrimediabile – Arsura ha una incisività assoluta e dimidiante simile a Scisma (titolo di Ilaria Palomba). Sta lì a certificare una separazione avvenuta, uno strappo da cui non si può in nessun caso tornare indietro. C’era un prima e adesso c’è questo poi: si può solo studiarlo, con una ferocia di analisi che si nutre di molte cose, e si affida ad alcuni strumenti.

Emilia Cirillo è architetto. Il corredo delle immagini che usa qui (come le immagini usate nei suoi libri di prosa) parte anche da una squadratura del foglio-realtà che si serve degli indicatori e degli strumenti di geometria e insiemistica per formulare un’ ottica precisa e spietata, a volte abbacinante come la luce di certe spiagge del Sud, a volte goniometrica e tagliente. Ma ancora di più diventa toccante la desolazione delle case inondate di luce ma ormai dismesse per l’assenza recente di attori agili, vestiti in avorio, il colore perfetto dell’estate, del mare, delle serate fresche e animate.

NESSUNA LUCE ALLE SPALLE
Una casa diroccata
in degrado
abitata da fantasmi
[…] mi accoccolo su una sedia di plastica
lasciata in rovina (lei o la casa coi suoi oggetti?, forse entrambe)
incapace a sognare

…quante stanze ha questa mia casa immaginaria: qui con un brivido risentiamo la voce gentile e tenace di Emily Dickinson, e proprio a proposito di quanto più vasta sia la casa della poesia rispetto alla casa della prosa.

Un esempio raro di concordanza, in questo libro, di Emilia Cirillo, anzi della voce poetica che qui mette in campo, e un suo modello. Altrove Emilia Cirillo riusa gli amati versi di poeti e scrittori cari (Il crepuscolo è l’ora più crudele // Si sta così // Sentirsi naufraghi e salvati / senza approdo), o di filosofi (Nulla scorre) o cantautori (Certe sere) [Eliot Ungaretti e Primo Levi / Eraclito / Ligabue] capovolgendoli, quasi irridendoli, in realtà piegandoli a nuove funzioni, proprio come tutta questa raccolta è pervasa da tronchi piegati (per esempio come l’albero di fico che si inchina al tempo), e la voce poetica nel libro è destinata come una statua di cera a colare / cadere / sprofondare / scomparire nella botola limata in precedenza.

Emilia Cirillo non esita a nominare la malinconia, e la violenza, e l’indifferenza che non si accorge del dolore, lo supera, lo travolge, lo ignora quasi sbeffeggiandolo, di sicuro non lo considera – così chi lo prova e ne è invaso resta fermo, viene superato, viene lasciato indietro. Ma chi è pervaso dal dolore non cerca le bolge, non cerca le comitive, non cerca la baldoria, il divertimento, non desidera stordirsi (Mi sono ritirata dalla vita / […] mi sono messa da parte).

Chi è preda del dolore si sprofonda in pratiche lente come il ricamo a filet oppure la raccolta accurata di oggetti che siano testimoni di desolazione e però anche ricordo: gli oggetti non sono mai la roba verghiana da idolatrare ma sono eredità piena di significato e memoria.

Interessante il legame stretto che Emilia Cirillo, o meglio la sua voce poetica qui, stabilisce tra la memoria e il mare. A collegarli è il rimbombo, il fragore delle onde accostato al rumore del passato.

Come accade sovente nella poesia, la forma poetica non solo traduce la lettura del mondo e del sentire il mondo in parole ma diventa anche veste di dignità. L’arsura del titolo (come accenna Rossella Tempesta nella prefazione) rimanda a un desiderio cioè è desertificazione che tradisce una sete, è l’effetto, si diceva, di uno strappo, come se l’inaridimento fosse segno anche clinico di un sanguinamento occulto che riduce la saliva, asseta, secca la gola e la bocca.

E allora, per concludere, due elementi dominano.

Il mare: che circonda le aride masse continentali, in modo incerto restituisce anche imbarcazioni piene di disperati (la terra è schiacciata ai poli / non rendiamola più stretta // girotondo su una barca / su tutte le barche del mondo – qui non sentiamo forse anche una filastrocca di Sergio Endrigo?), e si richiama a un’antica saggezza (Ora è calma piatta // chi va per mare sa / che domani sarà tempesta): facciamola finita con le radici e l’appartenenza è un verso meno scanzonato di quanto sembri, è piuttosto una polemica, una ribellione a certa retorica dominante – magari imparassimo dal mare.

Il freddo o l’inverno del cuore: una percezione che gela l’anima anche nel più torrido periodo estivo, poiché spesso ci attraversa un brivido e ci investe una vertigine, legati anche a luoghi in cui si muovono fantasmi.

Infine un’immagine folgorante, Si resta come candele spente / su una torta di compleanno / tra briciole di pan di Spagna / e riccioli di crema / una forchetta col suo boccone / abbandonata sul piatto (sembra una scena di Great Expectations): una desolazione immobile, a cui Emilia Cirillo oppone un darsi da fare arreso, ammettendo che, come nuova penisola nel fiume: Ora mi tocca remare ancora.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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