Marinella Petramala
A proposito di "Di madre in figlia"

Guida agli affetti

Il nuovo libro di Concita De Gregorio racconta il rapporto tra una nonna e sua nipote e dimostra la necessità di una “giusta misura" in ogni cosa. Specialmente negli affetti

Gli antichi greci conoscevano la misura delle cose, che è indicata in particolare dal termine pharmakon, il cui significato è “rimedio” ma anche “veleno”. La giusta dose cura, una goccia in più uccide. Concita De Gregorio, giornalista, scrittrice e firma storica de “la Repubblica”, in Di madre in figlia (Feltrinelli, 160 pagine, 16 Euro) illustra, per mezzo di una storia familiare che segue la linea femminile, come i due estremi dell’amore, la libertà e il controllo, provochino il disagio dell’oggetto d’amore.

Inizia con una adolescente, Adelaide – Adè, ché non si sente né maschio né femmina – dinamica in Rete («C’è una ragazza svedese che racconta delle storie bellissime, io la ascolto tutte le sere senza di lei non mi addormento, è un’abitudine»), ma al contrario evitante e ansiosa nella vita reale, che si ritrova con disappunto iniziale a passare tre mesi insieme alla nonna Marilù, una donna che trova bellissima, elegante, ma anche un’«androide», una «rettiliana». Marilù da giovane è stata una promessa dell’atletica e poi un’attrice, ma ora è “la Signora” che vive su «un’isola di scogli, da sola, in una casa in cima a una strada dove non c’è più niente» e che per prima cosa requisisce il cellulare di Adè («Non serve. […] Vedrai che il rumore del mare ti addormenta. Il mare cura tutto»). Marilù è libera, così come sono stati liberi gli anni della sua giovinezza, i Settanta, un aspetto che però ha intensificato nel tempo l’ostilità della figlia Angela nei suoi confronti, che sente di aver ricevuto solo indifferenza dalla madre, in balia del suo egoismo e dei suoi capricci. Così Angela esercita sulla figlia le attenzioni che avrebbe voluto da Marilù, ma che si concretizzano in un eccessivo controllo che non fa bene ad Adè («Mia madre dice che lei per me avrebbe rinunciato a lavorare se fosse stato necessario. Ma non è stato necessario. Per fortuna, pensa che peso avrei avuto. Dice sempre che è più importante il mio bene del suo ma questo non so se sia un pensiero che mi aiuta»). Eppure, Marilù ritiene di aver agito per il benessere della figlia («Eravamo sempre in giro in posti stupendi con persone favolose, non ci è mai mancato niente, ci trattavano come regine, che anni belli. […] Le ho insegnato la musica, l’arte, la bellezza, i viaggi senza bagagli, la libertà, questo ho fatto»).

Quella scritta da Concita De Gregorio è «una storia lunga che inizia male poi va meglio», perché le due, nonna e nipote, nel tempo trascorso insieme, riescono a conoscersi e capirsi, in un dialogo spesso silente che le avvicina. Ma è anche una storia che chiarisce come l’amore non segua regole universali, che le intenzioni sono sempre buone e ognuno ama con gli strumenti che ha, eccedendo o mancando alle volte, ma senza il desiderio di ferire: «Il segreto di ogni cosa è la giusta misura. Lo stesso fiore, la stessa radice, la stessa foglia possono uccidere o guarire. Un farmaco è veleno o salvezza. Ogni cura lo è. Anche l’amore: può soffocare, condannare o liberare. La giusta misura. Il calibro. Le dosi. Quanto di quanto somministrare. Quando. È tutto qui».


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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