Carlo Alberto Bucci
Alla Fondazione Nicola Del Roscio di Roma

L’arte della farsa

Il collettivo CANEMORTO, con una serie di spettacolari installazioni, gioca con le forme e con i significati tessendo la tela dell'ironia fino alla farsa. E l'arte diventa parodia

Nel mondo dell’arte e delle apparenze, una maschera svela il trucco della forma. E l’(auto)ironia mette in crisi il sistema del mercato e dell’opera stessa. In “Megalomanie” di CANEMORTO ci sono dieci sculture di alluminio, accartocciate come una carrozzeria ammaccata e incise, perché sono lastre calcografica, con malridotte figure umane. Quindi, vediamo altrettanti microscopi che inquadrano minuscole immagini di pochi micron. E anche cinque grandi logore, strappate carte a parete che, elegantemente incorniciate, altro non sono se non le stampe delle matrici stese ai loro piedi, madri sfinite – queste ultime – e abbandonate dopo il sofferto parto della creazione. Questa la ampia installazione del collettivo CANEMORTO (si firmano così, con tutte le lettere maiuscole) che si è preso tutto lo spazio della Fondazione Nicola Del Roscio di Roma per la loro nuova mostra curata da Davide Pellicciari e Carlotta Spinelli (fino al 18 luglio, via Francesco Crispi 18, dal lunedì al venerdì ore 11-17.30, ingresso libero) all’interno del format #ProjectRoom.

C’è un quarto elemento che compone la personale, è un video. Ed è decisivo per dare senso (o meglio, un nonsense) alla proposta espositiva. È la storia in movimento che, per la regia di Marco Proserpio, con musiche originali di Matteo Pansana, in quasi 26 minuti di girato ricostruisce la genesi della mostra stessa, con i tre fantomatici artisti della crew, ma anche i curatori, a interpretare sé stessi in una parodia dell’atto espositivo a cui stiamo assistendo. Proiettato all’ingresso del grande spazio della Fondazione che ha in Cy Twombly il suo nume tutelare, una sorta di ipogeo di archeologia industriale, il video “Megalomanie” vede il terzetto degli artisti mascherati incamminarsi verso la Fondazione Del Roscio e prendersi gioco dell’invito, ovvero – e giustamente – dello script inviato loro dai curatori. Nella favola di CANEMORTO, la gang dal volto coperto ha accettato la proposta del prestigioso centro per l’arte contemporanea (spazio che in passato ha ospitato mostre di autori quali Francesco Arena, Ellsworth Kelly, Tacita Dean, tra gli altri) soltanto per riuscire ad entrare nel Guiness World Record con “le stampe calcografiche più grandi al mondo”. La farsa dei tre finti buontemponi rischia di trasformarsi in tragedia perché l’uso improprio di acidi calcografici provoca un’esplosione che fa volatilizzare i tre artisti, piega le lastre delle matrici come fossero foglie e lascia però, in un piccolo cratere a terra, minuscole stampe calcografiche che solo il microscopio può mostrare: il primato è raggiunto, mai sono state stampate incisioni così minuscole.

La storiella alterna tratti comici infantili, con uno stile volutamente da B movie, a note acute di critica al mondo dell’arte contemporanea, al quale il collettivo degli streetartist nato, si narra, nel 2007, comunque appartiene (collettive al Macro di Roma e al Marca di Catanzaro, varie personali in gallerie private in Europa e in America). E vede gli stessi giovani curatori, Pellicciari e Spinelli, recitare la parte dei critici tonti, sbeffeggiati dai tre monelli invitati a partecipare al banchetto dell’arte alta, aulica e di ricerca. Per non parlare di Romolo Bulla, il decano degli stampatori italiani, bollato come “nonnetto” e “rimbambito” dagli irriverenti protagonisti del video, che nel suo atelier di Roma accoglie i tre di CANEMORTO, giunti lì per stampare le loro immagini, e consiglia loro incautamente di realizzare un’acquaforte invece della puntasecca: da qui l’improvvido uso degli acidi che dà origine all’esplosione finale e, sempre nella finzione, ma chissà…, alla fine fisica di Canemorto.

Il video è stato girato, tra l’altro, nell’aula magna dell’Accademia di belle arti di via Ripetta il 16 aprile scorso quando CANEMORTO (tre settimane prima dell’inaugurazione della mostra da Nicola del Roscio) ha presentato un lungometraggio, prodotto in occasione della mostra al Centre d’art contemporain di Nizza, con tanto di insulti per (quasi) tutti i presenti all’incontro, declamati nella lingua immaginaria della crew – italiano portoghesizzato (il decennio scorso i tre hanno effettivamente realizzato molti murales a Lisbona, mentre altri si trovano o trovano nelle periferie di Milano, Roma, Macerata, Gand) – per la quale ci vuole addirittura una traduttrice (interpretata da Giulia Gaibisso). Ed è proprio all’uscita dal Ferro di Cavallo che, nel video, i tre artisti dai tratti travisati, come fossero banditi, firma su richiesta di un fan la copertina del loro album. Da qui viene il dubbio che il trio CANEMORTO intrepreti (o sia esso stesso) la pop band omonima che, formata dai toscani Antonio Nardi, Leopoldo Giachetti e Martino Mugnai, nel 2004 si è imposta ad Arezzo Wave e sei anni dopo ha inciso il disco Canemorto ascoltabile su Spotify.

Eredi dell’ironia da sandinista “en travesti” di Jhonny Palomba – al secolo Pietro Martinelli, lo scrittore e critico cinematografico autore dal 2002 delle celebri, spassose “Recinzioni” in romanesco – i tre artisti di CANEMORTO, nei lavori che asseriscono di essere stati eseguiti a sei mani, dimostrano una manualità di rilievo, soprattutto nella gestione delle opere su carta e nelle matrici/sculture  accartocciate (quasi un omaggio alle opere di John Chamberlain): entrambi i supporti sono peraltro vergati con immagini e figure che rimandano alla brutalità del segno di lontana eco espressionista, su su fino ai tedeschi di Die Brücke di 120 anni fa esatti. Il dispositivo ironico e post situazionista che è annunciato nel video diretto da Marco Proserpio prosegue tuttavia nel foglio/catalogo della mostra che, realizzato come fosse l’edizione straordinaria del “Giornale dell’Arte”, camuffato in “Il Quotidiano dell’Arte” sulla scia degli storici fake del “Male”, oltre a ripercorrere le tappe della mostra, presenta molte perle di umorismo: ad esempio la pubblicazione ha inserti pubblicitari pagati dal fantomatico Palazzo Ducale di Rantola per reclamizzare una mostra di “Giovanni Bellini, l’anima della luce” (sacrosanta presa in giro dei soliti titoli delle rassegne d’arte) o dall’inventata Casa d’aste Pellagni che manda all’incanto anche una “Composizione cubista di Enzo Depuzzi”.

Ma, tra il serio e faceto, i curatori di “Megalomanie” dicono anche ciò che, probabilmente, pensano davvero. “Parliamo della ‘poetica del fallimento’: cosa intendi con questo concetto?” chiede l’inesistente Frank Petravich alla vera Carlotta Spinelli. E la curatrice gli/si risponde: “Nel lavoro di CANEMORTO, il fallimento non è un tabù ma un processo trasformativo. In una società che celebra solo il successo, gli artisti ci ricordano quanto sia importante accettare l’errore, la frattura, l’imprevisto. Il fallimento diventa uno spazio di rilevazione e riflessione. L’arte non è solo prodotto finito, ma processo, esperienza. E dentro questo processo, il fallimento è spesso più fertile del trionfo”. Nella finzione, Spinelli si riferisce all’esplosione che ha rischiato di distruggere la galleria e che ha però plasmato le opere dei tre artisti disintegrati dal boato. Nella realtà, è possibile che la giovane critica faccia un serio discorso contro i prodotti ben confezionati del jet set dell’arte contemporanea. E in questo senso il flop di CANEMORTO è subito un successo.


Le fotografie sono di Giorgio Benni.

Facebooktwitterlinkedin