Carlo Alberto Bucci
All’associazione Canova 22 di Roma

La scena di Canova

Andrea Aquilanti dialoga con la grande scultura di Antonio Canova proprio negli spazi che furono del grande artista. Quasi una trasmissione di ispirazione e sensibilità

Nel ventre del grande scultore neoclassico, il pittore moderno usa tutte le tecniche a disposizione per uscire vivo dal confronto. E impiega tutti gli incantamenti del mago per svelare l’origine della forma. Nata al calore del fuoco e ora rigenerata dal disegno e dal digitale.

Andrea Aquilanti ha passato un mese al lavoro nella fornace che è stata di Antonio Canova. E alla fine ne è uscito con un progetto installativo che – realizzato apposta per lo studio dell’artista che ha dato il nome alla strada in cui si trovava il suo composito, faraonico atelier (via Antonio Canona 22, tra via del Corso e via Ripetta) – fa riemergere, come attraverso una stratigrafia archeologica, il segno e il sogno del grande maestro (Possagno 1757 – Venezia 1822). In un omaggio all’arte del Settecento che passa per le ceneri del proprio vissuto: immagini di un camino, di un fuoco spento, ambienti riprodotti su una scatola la cui superficie è stata abrasa per indurre l’astante a penetrarla con lo sguardo, per scoprire però che oltre quel vetro c’è il buio; questo nei due lavori esposti nel vestibolo, nell’ambiente introduttivo alla mostra.

“La terza scena” si intitola la personale allestita per e nello spazio dell’associazione Canova 22 di Fiorenza D’Alessandro, in collaborazione con la galleria La Nuova Pesa di Simona Marchini che negli anni scorsi ha già portato artisti a lei legati (Felice Levini e Giuseppe Salvatori) ad esporre sotto la volta del vecchio forno canoviano. Nei dieci anni di vita della associazione di via Canova 22 (dove la mostra, inaugurata il 22 maggio, si può vedere tutti i giorni dalle 15,30 alle 20, ma solo fino al 27 giugno), l’artista romano, che nel 2015 ha rappresentato l’Italia alla Biennale di Venezia, ha messo a punto un particolare dispositivo che prevede più linguaggi (il disegno, la scultura, il video ma anche il teatro) e che coinvolge lo spettatore, trasformato in elemento attivo, indispensabile, perché la macchina scenica funzioni. Attraverso una sorta di teatro delle ombre.

Questa recensione sull’ultimo lavoro di Aquilanti non descriverà esattamente l’opera per non togliere quell’effetto sorpresa – elemento fondante, quasi un genius loci, della Roma barocca, e non solo – che è necessario al disvelamento dell’installazione. Diremo però che c’è innanzitutto un velo, ovvero un sipario che è al contempo fondale, che il visitatore deve violare per accedere alla sala principale e fondamentale della “Terza scena”. Nel cuore della fornace ormai spenta crepita un fuoco illusorio al posto della fiamma vera che cuoceva le terrecotte dell’autore della Paolina Borghese. Ed ecco così che il lavoro del genio di Possagno riappare, grazie alla mano di Aquilanti, attraverso  sanguigne posizionate secondo un ritmo ascensionale che allude alla spirale della fiamma ma anche alla sublimazione della forma. Il visitatore, dicevamo, è fondamentale perché il dispositivo scenico e pittorico si disveli. E per testimoniare con la propria presenza e i ricordi l’avvenimento artistico. Spente le luci, infatti, l’opera si dileguerà e i graffiti – memori della tradizione rinascimentale, non certo della banalità dei tag che offendono la capitale, non solo pareti e palazzi delle periferie, ma anche le antiche pietre della Città Eterna (vedi, ad abundantiam, le scritte sulle Mura Aureliane) – dovranno lasciare il posto a nuovi interventi. Sinopie destinate a svanire come gli affreschi della villa romana scoperta dalla benna in “Roma” di Federico Fellini. Questo il senso della storia – non solo dell’arte – della poetica di Andrea Aquilanti.

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