Roberto Cavallini
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Ritratto della realtà

Anche quest'anno World Press Photo riesce a dare conto di una realtà erosa dai conflitti. A cominciare dalla luce spenta negli occhi dei bambini di Gaza

Eccoci arrivati al compimento del settantesimo anno del World Press photo, che è iniziato nel 1955, quando un gruppo di fotografi olandesi organizzò un concorso per esporre il proprio lavoro a un pubblico internazionale. Da allora, il World Press Photo è diventato, anno dopo anno, uno dei concorsi più prestigiosi al mondo, dove si premia il meglio del fotogiornalismo e della fotografia documentaria. Inoltre attraverso un programma di mostre, la World Press Photo Foundation presenta ogni anno, a milioni di persone, le storie più significative che hanno trovato spazio nella stampa periodica.

Quest’anno I vincitori sono stati selezionati tra 3.778 fotografi di 141 Paesi che hanno presentato 59.320 fotografie.

Sono cifre importanti che dimostrano quanto siano numerosi i fotografi che affrontano realtà pericolose rischiando la vita (l’Unesco ha rilevato che nel 2024 sono stati uccisi almeno 68 giornalisti. Le zone di conflitto hanno registrato la percentuale più alta di uccisioni, raggiungendo il 60%, il dato più alto dell’ultimo decennio. La Palestina ha visto il maggior numero di vittime, seguita da Ucraina, Colombia, Iraq, Libano, Myanmar e Sudan) in situazioni tragiche, di guerra e di devastazioni ambientali per garantire una informazione che altrimenti rimarrebbe sconosciuta.

Quest’anno la scelta degli argomenti fotografici si è concentrata su conflitti, migrazioni e cambiamenti climatici: tutte le immagini premiate nelle varie categorie sono ora in mostra, a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, dove resteranno visibili fino all’8 giugno prossimo.

La foto del 2025 è quella di Mahmoud Ajjour, di nove anni, scattata da Samar Abu Elouf, per The New York Times. Mahmoud Ajjour ferito durante un attacco israeliano a Gaza City nel marzo 2024, ha trovato rifugio e assistenza medica a Doha, in Qatar. Le motivazioni che la direttrice esecutiva di World Press PhotoJoumana El Zein Khoury esprime sono: «Questa è una foto silenziosa che parla con forza. Racconta la storia di un singolo bambino, ma anche di una guerra più ampia, le cui conseguenze si estenderanno per generazioni». Il presidente della giuria globale, Lucy Conticello inoltre precisa: «La vita di questo ragazzo merita di essere compresa e questa foto fa ciò che il grande fotogiornalismo può fare: fornire un punto di ingresso stratificato in una storia complessa e l’incentivo a prolungare l’incontro con quella storia. A mio parere, questa immagine di Samar Abu Elouf è stata una chiara vincitrice fin dall’inizio».

L’emblematicità, la forza espressiva di questa fotografia in cui quel bambino è rappresentato, spoglio, con una semplice canottiera in dosso, senza più i segni del sangue, della ferita aperta, ma ormai senza più le braccia e che guarda verso una finestra dalla quale proviene una luce calda, paralizzano l’osservatore. C’è una speranza o una volontà di futuro nello sguardo del bambino? Non lo possiamo sapere e in questa sospensione di giudizio, emotiva, esistenziale, in questa condizione di disorientamento si prosegue il percorso lungo un catalogo visivo della sofferenza.

Numerose sono le fotografie che meritano ammirazione per caratteristiche meramente fotografiche (forse in alcune si è calcata un po’ la mano in post-produzione, schiacciando l’occhio ad effetti meramente cinematografici) ma tutte meritano attenzione e concentrazione in relazione al soggetto che descrivono. In particolar modo sottolinerei la storia a lungo termine, di Cinzia Canneri, I corpi delle donne come campi di battaglia.

Viviamo in una fase storica della comunicazione in cui siamo subissati da informazioni, soprattutto visive; oggi le immagini non si guardano più solamente, le immagini si toccano, se ne ingrandiscono i particolari, le immagini al contatto rapido del polpastrello ci portano altrove, il tempo che dedichiamo quotidianamente all’osservazione è quello dello “scrolling”. È in questa situazione che si forma un immaginario collettivo, con le dovute cautele e differenziazioni, potremmo azzardarci a usare la locuzione “immaginario planetario”.

È dunque in questa situazione di soverchiante produzione e bulimica fruizione che si oblitera quello che realmente di significativo avviene nel mondo e allora ecco la funzione meritevole del World Press Photo: il mostrare le immagini come forma di resistenza contro l’oblio, come fossero pietre d’inciampo visive.

Noi osservatori abbiamo l’obbligo etico di non sottrarci a questo compito con stoica perseveranza guardando con occhio attento ogni singola immagine, leggendo ogni singola didascalia che ha la funzione di ricondurci dalla dimensione emotiva alla concretezza dell’accaduto.

Càpitano a proposito, con straordinaria coincidenza temporale, le parole pronunciate dal neo eletto Papa Leone XIV, che esprimono solidarietà ai giornalisti incarcerati per aver provato a raccontare la verità e per i quali ha chiesto la liberazione, capita ancor più a proposito il seguente monito: «Solo i popoli informati possono fare scelte libere».

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