Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Le spie artificiali

La nuova pellicola di Steven Soderbergh, “Black bag”, non è solo un film di genere, è anche una riflessione sulla menzogna. Soprattutto quella "artificiale"

Londra. È sempre Londra la città delle spie, oggi come nel 1973, quando George Smiley (sublime Gary Oldman) setacciava il “Circus” per individuare il traditore doppiogiochista venduto ai servizi sovietici. Non resta niente delle atmosfere grigie e un po’ naïf del film La Talpa tratto dal capolavoro di John le Carré, lo spionaggio è diventato un altro mestiere, certo più cattivo e più cinico, così complicato e imponderabile nell’era dell’intelligenza artificiale, quando basta trafugare un malware denominato “Severus” per cancellare dalla terra migliaia di innocenti e forse far saltare zar Putin dal Cremlino, forse. Niente sfugge all’occhio dei satelliti, anche a quelli del National Cyber Security Center che controllano in tempo reale ciò che avviene in tutto il mondo, persino su una panchina di Zurigo tra bambini che giocano, due persone si parlano come fossero sconosciuti, ma forse non è un incontro casuale.

Oggi come nel 1973 il nemico è sempre lo stesso, i russi. E anche il problema è sempre lo stesso: trovare la talpa che fa il doppio gioco.

Siamo nel territorio delle pellicole di genere? È inevitabile pensarlo vedendo il nuovo film diretto, montato e fotografato dal regista Steven Soderbergh Black bag – Doppio gioco: fin dalla prima scena semibuia in un night londinese, scopriamo che c’è un traditore, mentre la camera a mano è incollata alla schiena palestrata dell’impassibile Michael Fassbender che si muove come un automa nei panni eleganti dell’agente dei servizi segreti britannici George Woodhouse e indossa gli stessi occhiali quadrati di Michael Caine-Harry Palmer, non troppo diversi neanche da quelli di Oldman-Smiley, stabilendo così l’esistenza di un dress code ottico-spionistico.

Ma è subito evidente che non sarà una spy story come le altre. Perché nella lista dei cinque sospettati affidata a Woodhouse con l’obiettivo di smascherare la talpa, c’è anche sua moglie che fa il suo stesso mestiere, la gelida e inquietante Kathryn St. Jean, interpretata da una Cate Blanchett che sempre più appare la replicante di se stessa.

Lo spettatore sorride mentre guarda Soderbergh pescare senza ritegno citazioni e atmosfere dai classici dello spionaggio, ma contemporaneamente inondare di dialoghi arguti e raffinati un genere che di norma prevederebbe scambi laconici e lunghi silenzi. E qui c’è un primo indizio: se Black bag si limitasse a replicare in versione glamour La Talpa o altre pellicole simili, sarebbe una gara persa in partenza, un’operazione priva di significato. Credo che dietro la confezione patinata, com’è nello stile del regista, ci sia qualcos’altro: l’incognita introdotta dalla coppia Fassbender-Blanchett offre un baricentro diverso alla storia e ne spariglia le carte, permettendo a Soderbergh e allo sceneggiatore David Koepp (è il terzo film che fanno insieme) di andare oltre il genere. Tanto da concedersi il divertimento di una scena che pare Perfetti sconosciuti trasferito nel lusso di un appartamento londinese i cui proprietari fanno ciò che sappiamo.

Con l’obiettivo di raccogliere indizi, infatti, Woodhouse organizza a casa propria una cena invitando i sospettati della lista, così che a tavola si trovano tre coppie molto fashion alle prese con un gioco malizioso: attribuire un “buon proposito” al commensale seduto accanto. E come avveniva nel film di Paolo Genovese, la cena si trasforma (anche grazie all’uso di una specie di siero della verità) in un gioco che rivela il lato peggiore di ciascuno, portando alla luce i tradimenti delle coppie piuttosto che il tradimento verso la Security britannica.

Il confronto tra la verità e la menzogna in un mestiere in cui la seconda è tutto, si arricchisce così di altri piani di lettura quando l’asse della narrazione si sposta dal livello “politico” al livello matrimoniale. La coppia protagonista è invidiata anche per la sua stabilità, “io ucciderei per te” si dichiarano reciprocamente. Ma George raccoglie gli elementi per sospettare di Kathryn e Kathryn viene indotta a sospettare di George, così che il tradimento e la menzogna presentano una faccia diversa se visti attraverso la lente della loro relazione.

La stessa cosa avviene nei rapporti con gli altri personaggi della storia. La bella sequenza, montata a ritmo serrato dal regista, degli interrogatori ai sospettati sottoposti alla prova del poligrafo, rivela il sovrapporsi di questi piani tra personale e politico. Finché la matassa non si sbroglierà in una scena speculare alla cena, intorno allo stesso tavolo e con le stesse coppie.

Viene da pensare che Soderbergh abbia “usato” il genere del film di spionaggio per fare un’altra riflessione che trapela qua e là, in battute come quella che una collega (sospettata e molto disinvolta) dice a George che la sta interrogando col poligrafo: “Per un attimo ho pensato che fossi umano”.

In effetti Fassbender e Blanchett si muovono con la rigidità degli automi e assolvono ai loro compiti con l’impassibilità dei professionisti addestrati a raggiungere un obiettivo, a qualsiasi costo. Eppure c’è uno spazio che riguarda la loro unione che entrambi difendono e in cui credono e che alla fine si rivela più forte di ogni sospetto, di ogni menzogna e presunto tradimento. E forse ci interroga, nel tempo inquietante che stiamo vivendo, su quanto è ancora preziosa la nostra umana fragilità.

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