I deliri del bibliofilo
Luciano Bianciardi: una vita agra
Storia editoriale (e personale) del romanzo che ha reso celebre lo scrittore grossetano, «un anarchico» emigrato nella Milano degli anni Sessanta, capitale del lusso e del benessere. Fu un successo strepitoso (10 mila copie in due mesi), tra cause legali e conseguenti censure
Molto complessa e articolata è la storia editoriale del romanzo La vita agra di Luciano Bianciardi, pubblicato nel 1962 nella collana “La Scala” di Rizzoli diretta da Domenico Porzio. In una lettera indirizzata all’amico Mario Terrosi in data 1° marzo 1962, Bianciardi scrive: «Son riuscito a scrivere un libro che ritengo la mia cosa migliore, ma che mi ha messo nei pasticci, perché lo vogliono almeno in quattro editori, e dovrò per forza scontentare qualcuno. Guarda il caso, Morando del Bompiani (con Bompiani ho un impegno di opzione) è l’unico fra tanti che non è soddisfatto e che mi vorrebbe far riscrivere ogni cosa. Calvino invece ne è entusiasta, e lo pubblicherebbe anche subito. Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura scritto in prima persona singolare». In data 4 giugno dello stesso anno precisa, sempre a Terrosi: «Mi tirano per la manica almeno tre o quattro e io, debole e vigliacco, ho detto di sì a tutti. Così quando uscirà il libro finirò in tribunale per spergiuro, e mi metteranno in galera. Tutto sommato io sarei per darlo a Rizzoli (lasciando perdere quei cervelloni di Einaudi, che mi tratterebbero come uno studente di liceo capitato per sbaglio in mezzo a un branco di professori universitari). Rizzoli ha voglia di fare libri nuovi, si impegnerebbe a fare pubblicità ecc. E può darsi che mi facciano allenatore del Milan, squadra di proprietà dell’Angelone nostro. Comincio a pensare che sia meglio stare in groppa ai cavalli grossi, piuttosto che a quelli veloci e balzani». Infine il 1° agosto osserva: «Il mio libro esce alla fine di settembre, col titolo La vita agra e con un bel serpente in copertina. Il serpente è l’unico simbolo milanese (la biscia dei Visconti) che si addiceva a un libro simile».
Il volume esce con un’illustrazione in copertina di Mario Dagrada riproducente un biscione stilizzato, con una scheda corredata del ritratto fotografico dell’autore e una fascetta riproducente il verso 80 dell’VIII Canto del Purgatorio: «la vipera che ’l Melanese accampa». La vita agraha un successo strepitoso e inaspettato: in due mesi vende 10 mila copie. Una settimana dopo la pubblicazione Montanelli firma sul Corriere della Sera una recensione intitolata Un anarchico a Milano in cui asserisce che «La vita agra è uno dei libri più vivi, più stupefacenti, più pittoreschi che abbia letto in questi ultimi anni». Bianciardi diventa una delle icone di quella Milano qualunquista e iperproduttiva contro cui si scaglia nel suo libro. Gli viene offerta da parte dello stesso Montanelli un’offerta di lavoro al Corriere della Sera che l’autore grossetano declina per coerenza intellettuale, mentre piovono gli inviti a presentare il suo romanzo nei circoli intellettuali che contano. Scrive a Terrosi: «Il mondo va così, cioè male. Ma io non ci posso fare nulla. Quel che potevo l’ho fatto, e non è servito a niente. Anziché mandarmi via da Milano a calci nel culo come meritavo, mi invitano a casa loro». E ancora: «L’aggettivo agro sta diventando di moda, lo usano giornalisti e architetti di fama nazionale. Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare la parte dell’arrabbiato».
A Bianciardi viene intentata una causa per diffamazione da Otello Tacconi, un amico grossetano che, nelle pagine del romanzo, figura con il suo vero nome. Il processo sarà lungo e complesso, con risvolti a tratti grotteschi. Tacconi muore di crepacuore poco dopo ma la causa sarà successivamente impugnata dai parenti. Lo stesso Valentino Bompiani lo denuncia per non aver rispettato l’impegno che aveva assunto di pubblicare La vita agra con la sua casa editrice. Giampaolo Dossena sosteneva al riguardo che esistesse una piccola tiratura pubblicata da Bompiani e finita al macero.
A complicare ulteriormente la situazione vi è poi l’episodio del calzolaio Maccari, presente nel decimo capitolo del romanzo, che Bianciardi è costretto a sopprimere in seguito ad altri problemi di carattere giudiziario. La quinta edizione appare con le varianti riferite al brano in questione, sostituito con un passo di analoga ampiezza. Nel catalogo della primavera 2005 della libreria Pontremoli di Milano figura un esemplare della Vita agra che riporta la seguente descrizione: «In-8°, tutta tela editoriale illustrata, pp. 220 (4). Quarta edizione, l’ultima che vide la luce con il pezzo relativo all’incontro con il calzolaio Maccari, non censurato. In particolare, la copia qui presentata è fra quelle utilizzate per la causa intentata e vinta dal Maccari, in quanto alle pagine 194 e 195 (dove appare il brano contestato e poi soppresso) sono apposte le marche da bollo e relativi timbri giudiziari e viene incorniciato a matita il passaggio del romanzo oggetto della causa».
Il romanzo costituisce l’ultima parte della trilogia dedicata alla “scoperta” della Milano del boom economico, dopo le prove del Lavoro culturale e L’integrazione, edite da Feltrinelli rispettivamente nel 1957 e nel 1960. Qui lo spirito caustico di Bianciardi si rivela appieno, restituendoci senza falsi moralismi tutte le angherie, le disillusioni, le frustrazioni che un intellettuale di provincia si trova a subire nel secondo dopoguerra nella capitale del lusso e del benessere. L’eponima riduzione cinematografica di Carlo Lizzani, allestita nel 1964, con interpreti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli, contribuirà a fare della Vita agra il testo più conosciuto di Bianciardi.
Adesso che, a oltre un secolo di distanza dalla nascita, la figura dello scrittore è stata opportunamente rivalutata fa riflettere il passo con il quale il suo biografo Pino Corrias, in Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano (Baldini & Castoldi, 1993), descrive il suo funerale: «Alla partenza del furgone c’è Maria in un angolo che piange. La bara scivola dentro, l’autista e il becchino chiudono il portellone. Ci sono quattro persone con i cappotti chiusi, venuti a salutarlo. Uno è Vacchelli. Il secondo è Sergio Pautasso: “Finché campo non dimenticherò lo squallore di quel funerale”. Gli altri due non se li ricorda più nessuno».