Addio al poeta di Cesenatico
Il mondo senza Stefano Simoncelli
«Se n’è andato senza alcun clamore, discretamente come aveva vissuto…». Con la raccolta “Giocavo all’ala” iniziò effettivamente il suo percorso poetico, «volto a dialogare con morti che sono più vivi dei vivi», con uno stile che sfocia «in una disinvolta scorrevolezza espositiva»
Stefano Simoncelli se n’è andato senza alcun clamore, discretamente come aveva vissuto. In maniera fulminea, furtiva, nell’arco di una manciata di giorni di un maggio disperatissimo e crudele. Era assistito amorevolmente dalla seconda moglie Daniela, coadiuvata dall’amico fotografo Daniele Ferroni. Erano la sua famiglia, con gli inseparabili cani Teo e Margot. Con il poeta Giancarlo Sissa e il critico Massimo Raffaeli ci scambiavamo messaggi cercando di sminuire l’inesorabilità della vicenda. Non aveva mai rinunciato alla vita di provincia, Stefano, vivendo in una splendida casa del porto-canale della sua Cesenatico (con qualche breve parentesi a Cesena), a due passi da quella di Marino Moretti. Una volta, con la visuale delle grandi vele immobili sul canale, mi aveva mostrato, con estrema naturalezza, come si trattasse di un servizio di piatti di porcellana ereditati dalla madre, un autoritratto di Pasolini e una lettera autografa di Alfonso Gatto.
Quella realtà “provinciale” lo accomunò agli altri «fratellini», nomignolo coniato da Vittorio Sereni che annoverava anche i poeti Ferruccio Benzoni e Walter Valeri, promotori insieme a Simoncelli della rivista «Sul Porto». Questo periodico, pubblicato nel decennio 1973-1983 e redatto quasi artigianalmente, aveva un taglio letterario che presentava frequenti incursioni nella realtà politica di allora, e servì non poco a cementare la loro amicizia. Collaborarono a «Sul Porto» intellettuali e poeti affermati come Pasolini, Fortini, Caproni, Raboni, Giudici, Penna, Gatto, Bertolucci, Giorgio Orelli. I tre amici erano stati tra i pochi a recuperare dall’oblio in cui era sprofondato il concittadino Dante Arfelli, dopo il successo ottenuto in America con I superflui. Ma in primis c’era lui, il maestro degli Strumenti umani, con la sua pacatezza e la sua inquietudine, con la sua introversione e la sua generosità, il cui unico elemento di disturbo riguardava l’incrollabile fede calcistica per la «beneamata». Effettuarono insieme un disgraziato viaggio nel Vaucluse per trovare René Char, tradotto magistralmente da Sereni, che non capì l’improvvisata. Il loro carteggio figura nel volumetto Miei cari tutti quanti…, curato da Dante Isella per le Edizioni San Marco dei Giustiniani nel 2004, appaiato alla raccolta postuma Canzoniere infimo e altri versi di Benzoni.
I tre autori esordirono nel 1980 in uno dei quaderni collettivi di Guanda, con scritti critici di Raboni e Fortini, che valse loro il Premio Mondello Opera Prima. La raccolta di Simoncelli, allora trentenne, si intitolava Via dei platani e conteneva in nuce alcune caratteristiche manifestatesi negli approdi lirici successivi: dal tono elegiaco di sottofondo al tentativo di coniugare l’essenzialità di Saba e Penna con il dettato prosastico sereniano. Con Benzoni aveva in comune la passione per la Juventus (non per niente avrebbe voluto diventare un «angelo sporco di terra» come Sivori), il fumo, l’alcol: «Assentiva Ferruccio / guardando il fondo del bicchiere – vi presagiva / forse il mio destino». Nel 1989 licenziò, recalcitrante, su insistenza di Enzo Siciliano la sua prima raccolta autonoma per Gremese, Poesie d’avventura. Dopodiché cominciò un lunghissimo silenzio editoriale, dove bisogna ravvisare un certo disgusto per le derive dell’establishment letterario, interrotto solo nel 2004 quando pubblicò per la casa editrice anconetana Pequod Giocavo all’ala, dedicato alla scomparsa della madre. Era un fiume in piena finalmente libero di espandersi, di esorcizzare i motivi del lutto e del dolore mediante una parola che tuttavia non aveva niente di salvifico. Un giorno mi confidò di ritenere quella raccolta la più autentica da lui pubblicata. E, in effetti, proprio da lì comincia il percorso poetico di Simoncelli, volto a dialogare con morti che sono più vivi dei vivi, in una cifra stilistica sfociante in una disinvolta scorrevolezza espositiva.
Influirono giocoforza eventi tragici quali la scomparsa di alcuni amici, del padre e dell’amata moglie Patrizia sui quali la sua poesia si sofferma in continuazione. Tali perdite, associate ad altri motivi, produssero in rapida sequenza libri bellissimi e toccanti, autentici gioiellini stampati per un manipolo di aficionados sempre da Pequod: La rissa degli angeli(2006), Terza copia del gelo (2012), Hotel degli introvabili (2014), Prove del diluvio (2017), Residence Cielo (2018), A beneficio degli assenti(2020). Nel 2023 con Sotto falso nome entra nella rosa dei finalisti dell’edizione inaugurale del Premio Strega Poesia, ottenendo una certa visibilità mediatica a cui lui, un po’ istrionicamente, non si sottrae. Nello stesso anno esce da Marcos y Marcos l’importante autoantologia Stazioni remote, con un’intensa prefazione di Massimo Raffaeli (nella stessa collana era apparso qualche anno prima un volume contenente l’opera poetica integrale di Benzoni intitolata Con la mia sete intatta). E bisogna dare atto a Fabio Pusterla di aver saputo valorizzare sul versante editoriale l’opera dei due «fratellini» di Cesenatico, contravvenendo al generale disinteresse di sigle editoriali più affermate, con collane storicamente consolidate.
Il tema dei fantasmi diventerà un leitmotiv della poetica stessa di Simoncelli. Si pensi a questa poesia, dedicata alla figura paterna, tratta da Hotel degli introvabili:
Per alcuni anni, prima di addormentarmi,
ho sperato sarebbe venuto a prendermi
come davanti al portone della scuola
quando gli consegnavo la cartella
e m’aggrappavo al suo braccio.
Sarebbe stato là, sul marciapiede,
m’illudevo, distante da tutti e fumando,
ma niente, nemmeno la brace della sigaretta
a luccicare nel buio dove lo immaginavo.
Poi in un’alba livida e piena di vento,
quando ormai non ci contavo più,
si è aperta e richiusa la porta dove dormivo
e l’ho visto: era lì, ai piedi del letto,
che mi aspettava fumando.
L’ultima raccolta, stampata dall’amico Marco Monina per Pequod, è del 2024 e si intitola Visite notturne. Si tratta di un commovente epicedio in ricordo della moglie Patrizia, suddiviso in 81 componimenti tesi a descrivere una mancanza che si fa impietosa cronaca esistenziale. La vita, come un disco in vinile di Charlie Mingus o Leonard Cohen inceppatosi di colpo, gira a vuoto «sullo stesso punto». Inutilmente Stefano ingannava il tempo giocando a tennis, fumando innumerevoli Lucky Strike nonostante i divieti dei medici, coccolando i suoi cani, passando le notti nel tentativo di blandire l’ombra di persone scomparse. Qualche giorno prima di lasciarci mi aveva inviato un sms lapidario e terribile: «Ho un tumore al pancreas e me ne vado. Ciao». Cosa avrei potuto rispondergli per rinfrancarlo? Caro «ritardatario dall’aria trasognata / che guarda passare le nuvole», il mondo si è impoverito senza la tua voce.