Giuseppe Grattacaso
Su “Giorgio Caproni Scrittore in versi"

Il canto di Caproni

Francesco Napoli ha dedicato uno studio (tra biografia e saggio critico) a Giorgio Caproni e alla sua voce così atipica nell'ambito del Novecento. Come un controcanto legato a città e persone

Voce per larghi tratti solitaria, benché apprezzata fin dagli esordi da numerosi poeti e da qualche critico, quella di Giorgio Caproni è voce in parte discorde, sempre in cerca di una musicalità originale, concentrata su una melodia che arieggia in sussurrati cantabili, ma che pure appare refrattaria a farsi totalmente canto armonico, piuttosto disposta a improvvise curvature, a scarti e a ritorni, a fratture inaspettate, a ritmi che possono presto spezzarsi in durezze. Poeta inadatto al coro, in questo senz’altro “ligustre”, come lui stesso si sarebbe definito, sarà anche per questo che Caproni, ormai considerato tra i più alti protagonisti del Novecento poetico italiano, abbia stentato inizialmente a farsi riconoscere, troppo singolare e troppo distante da scuole e correnti per ottenere subito ampi consensi.

C’è da dire a tale proposito, inoltre, che la sua poesia è costantemente tesa all’interrogazione e non lascia mai spazio alla consolazione (che si intravvede forse solo, ma sempre in forma di proiezione nostalgica, nei Versi livornesi, dedicati alla madre, e nelle poesie che hanno per protagonista Genova): poesia semplice nel dettato, quasi accattivante, ma sempre abitata da un pensiero profondo, complesso e malagevole, che si fa, con il passare del tempo, nelle raccolte dell’ultimo periodo, sempre maggiormente intriso di contenuti metafisici.

Il critico Francesco Napoli (tra i suoi lavori più impegnativi il recente Poeti nati negli anni ‘60. Letteratura come condizione, Interno Poesia, 2024) ripercorre la vicenda esistenziale del poeta livornese e traccia i caratteri salienti della sua espressione lirica nell’agile Giorgio Caproni Scrittore in versi, edito da Ares, che si avvale dell’introduzione di Francesco De Nicola e si conclude con una intervista a Maurizio Cucchi. Appare molto utile al lettore la messa a fuoco sulle città in cui Caproni visse, in particolare per quanto riguarda la vivace e per nulla provinciale Livorno dei primi decenni del secolo scorso e la Genova degli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, in cui il poeta si formò e a cui rimase sempre legato. Altrettanto efficace è il soffermarsi dell’autore sulle atmosfere che caratterizzarono le consorterie letterarie, allora particolarmente vivaci e non di rado polemiche, che il poeta frequentò, sia pure con qualche resistenza e conservando sempre un ampio margine di autonomia.

Avviato alla carriera concertistica come violinista, ben presto Caproni si rese conto di essere incapace di affrontare la tensione emotiva derivante dall’esecuzione davanti a un pubblico e, diplomato all’istituto magistrale, optò per la più tranquilla professione di maestro elementare, un lavoro che gli garantì per lungo tempo uno stipendio, sia pur magro (andrà in pensione dopo 45 anni di insegnamento), che non lo libererà però mai del tutto dalle ricorrenti difficoltà economiche. Intanto Caproni scrive e si occupa di letteratura, si fa conoscere e imbastisce rapporti di amicizia con poeti e letterati, su tutti Carlo Betocchi, con il quale avvierà una corrispondenza che proseguirà nei decenni, e Alfonso Gatto, a cui seguiranno, quando andrà a vivere a Roma, l’assidua frequentazione con Attilio Bertolucci e l’affettuoso rapporto di reciproca stima con Pier Paolo Pasolini.

Il discorso di Francesco Napoli unisce le notizie biografiche e le indispensabili indicazioni storiche a preziose notazioni critiche, mai appesantite da osservazioni troppo specialistiche, ma rivolte al pubblico ampio dei lettori, anche non addetti ai lavori, infine individuando nel Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, pubblicato da Garzanti nel 1965, il momento più significativo della produzione caproniana, o almeno lo snodo espressivo che introduce alla fase  matura della sua poesia. “Credo si tratti del libro più essenziale di Caproni – scrive Napoli ‒, con una sorta di transitorietà intrinseca, di indefinitezza sospesa, come se qualcosa dovesse ancora accadere nel suo ‘ragionamento’ poetico”. In questo caso, l’effetto della “sua ossessione musicale” conduce a “un lungo monologo, una prosopopea per l’appunto”, i cui protagonisti, tra i quali il viaggiatore cerimonioso, il guardiacaccia, la guida, il preticello, “narrano le rispettive storie dietro il travestimento di un’intenzione apparentemente dialogica che si risolve di fatto in un monologo, dove l’interazione viene puntualmente negata e i referenti, nel loro spettrale mutismo, fungono da sfondo metafisico”.

È a partire da quest’opera che emerge, con la riflessione metafisica, anche la meditazione sulla morte e “s’insinua l’interrogazione sull’esistenza o inesistenza di Dio”. Del resto, ricorda Napoli, uno dei monologanti protagonisti del libro è il prete, che compare nel Lamento (o boria) del preticello deriso, il quale non ha paura a confessare che agisce solo per dovere, che “altra cosa è la fede”, che la sua è solo “miseria senza teologia”: “So anche che voi non credete / a Dio. Nemmeno io. / Per questo mi sono fatto prete”.

Caproni negli anni continua, anche per rimediare qualche ulteriore introito, le collaborazioni a varie riviste, ottiene qualche più lauto gettone per interventi televisivi, grazie a Leone Piccioni, artefice e curatore della trasmissione L’Approdo (ma rifiuta una collaborazione più continuativa), soprattutto prosegue nel lavoro, di fatto mai interrotto, di traduttore. Nel 1971, tra le sue trasposizioni più significative, e su insistenza di Giacomo Debenedetti, traduce, in collaborazione con Rodolfo Wilcock, Tutto il teatro di Jean Genet, per il Saggiatore, e quattro anni più tardi, per lo stesso editore, ancora di Genet, 4 Romanzi, che contiene anche Nostra signora dei fiori e Querelle de Brest. In ogni caso Caproni, che aveva tradotto tra gli altri Baudelaire, René Char, Céline, Cendras, Frénaud, Apollinaire, dirà di non aver “mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, viene chiamato il tradurre”.

Uno dei vertici della poesia di Caproni si ha, a detta di Napoli, con Il muro della terra (1975, cui faranno seguito, tutti editi da Garzanti, Il franco cacciatore, 1982, Il conte di Kevenhüller, 1986, e postumo nel 1991, Res Amissa): in questa raccolta il poeta “è più diretto nell’affrontare il dramma dell’inutilità dell’esistenza individuale, celandosi meno dietro il sarcasmo o la cesellata sonorità cantabile dei precedenti lavori”.

Giorgio Caproni Scrittore in versi è un libro tra biografia e critica, tra storia letteraria e storia culturale, di scorrevole lettura, efficace nel mettere a fuoco complessivamente l’opera del poeta, strumento prezioso per i nuovi e per i già consolidati lettori dell’autore del Congedo del viaggiatore cerimonioso.


La fotografia di Giorgio Caproni è Wikimedia Commons.

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