Diario di una spettatrice
Il dolore di Napoli
"Nottefonda" di Giuseppe Miale di Mauro con Francesco Di Leva (e il figlio Mario) è un bellissimo film dove si intrecciano dolore e speranza. Con una Napoli dolente e autentica che fa da protagonista
Il profilo dell’uomo si perde nella notte e nel fumo del crack che esce da una bottiglietta di plastica, anzi il profilo si “smargina” come si smarginava Lila, l’amica geniale. Aspira dalla cannuccia una boccata di veleno e poi esausto appoggia la nuca contro il muro, lo fa e lo ripete ancora, è evidente che sta male e che per quel male c’è solo una cosa: il silenzio che il crack produce nella sua mente e gli impedisce di urlare.
L’uomo che si chiama Ciro, ma ancora noi non lo sappiamo, è il protagonista di una notte che non finisce, dura da un anno la sua Nottefonda, è iniziata quando sua moglie è morta in un incidente stradale, così la notte di Ciro smargina nel giorno, si inghiotte tutta la sua vita, non se ne vede l’alba, anche per lui “ha da passà ‘a nuttata” direbbe Eduardo.
Nottefonda, lo dico subito, è un film bellissimo per i motivi che cercherò di spiegare e per qualcosa che spiegabile non è, ma che lo spettatore coglie immediatamente e che fa di questa pellicola – l’esordio alla regia cinematografica di un uomo di teatro, Giuseppe Miale di Mauro – un film a sé: una storia di dolore inconsolabile seminata di speranza, il dolore di Ciro che è tutt’uno con la speranza negli occhi di suo figlio Luigi. A rendere unico questo film c’è un primo fatto: Ciro è Francesco Di Leva, Luigi è suo figlio Mario. Padre e figlio si erano già incrociati ne Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone, era il 2019 e Mario aveva solo 9 anni, tirava due calci a un pallone e il sindaco gli allungava una banconota. In Nottefonda Mario ne ha 14 e sta accanto al padre da pari a pari, entrambi protagonisti, addirittura “io per la prima volta mi sono sentito figlio, sentivo che lui mi proteggeva durante le riprese delle nostre scene insieme” confessa Francesco Di Leva.
Una premessa prima di raccontare qualcosa della storia, un congegno che ha la perfezione di certe pièce teatrali e di cui è bene non rivelare ciò che lo spettatore capirà solo alla fine. Il film è girato nella periferia est di Napoli, non la città di Posillipo e del Vomero, una città che potrebbe essere Marsiglia, le stesse gru del porto, i pescherecci che scaricano il pescato della notte, gli incroci di tunnel e cavalcavia e ponti che si inseguono e i rigagnoli di strade che si perdono tra capannoni abbandonati, gli stabilimenti di San Giovanni a Teduccio, una volta l’impero del pomodoro in scatola Cirio. Il regista poteva girare solo lì, lo sapeva ancora prima di capire che avrebbe fatto un film dal suo libro La strada degli americani, perché quella è la sua Napoli, è lì che ha fondato dieci anni fa il NEST (Napoli Est Teatro) dentro una palestra abbandonata, e quel teatro è diventato un progetto sociale e culturale per tanti giovani, questa è una storia che viene prima del film. Con Miale a fare il NEST c’erano anche Di Leva, Adriano Pantaleo e Giuseppe Gaudino e tutto il cast del film, e chi fa le scene, i costumi, la fotografia. E negli anni sono arrivati in quel teatro Toni Servillo, Antonio Latella, Mario Martone, Giuliana De Sio, Vincenzo Salemme, Vinicio Marchioni, Eugenio Barba. Per dire che c’è tutta questa vita dietro il film “Nottefonda”, c’è la meglio Napoli del palcoscenico e del cinema.
La storia, dunque. Ciro ha perso la moglie amatissima Flavia in un incidente stradale e da un anno, ogni notte, sale in macchina, vaga alla ricerca della Golf rossa che l’ha buttata fuori strada e il percorso si ferma davanti al pilone del cavalcavia dove Flavia è morta. Ogni notte puntualmente si infila in macchina con lui suo figlio Luigi, Ciro gli ripete che la notte dovrebbe restare a casa e dormire, che domattina ha scuola, ma il ragazzino è cocciuto: «Io devo venire, c’ero io il giorno dell’incidente, non tu, so io com’era fatta la macchina, non tu».
Nella scena di apertura Ciro accetta di caricare il corpo di un cane morto probabilmente in un combattimento clandestino ed entrambi lo vanno a seppellire ai piedi di quel pilone. Quel cane ricomparirà nella scena finale del film di cui niente dico, se non che darà allo spettatore un colpo al cuore.
I giorni di Ciro sono tutti uguali, sono solo l’attesa della notte che verrà, quando si rimetterà a caccia dell’assassino per un’impossibile vendetta. A condividere il dolore che lo inebetisce c’è sua madre (una gigantesca Dora Romano da Oscar), lei cucina, riordina casa, lo incoraggia a cercare un lavoro e ad andare al cimitero per affrontare quel lutto che lo sta uccidendo. Anche perché Ciro appena può sale nel terrazzo sul tetto e si riempie i polmoni e la mente di crack.
C’è un altro personaggio che cova la stessa ossessione: il suo amico Carmine (il bravissimo Adriano Pantaleo), licenziato dalla fabbrica con il suocero che amava come un padre. L’anziano disperato ha bevuto una sostanza tossica ed è morto, Carmine lo vuole vendicare uccidendo chi li ha licenziati. E c’è una scena chiave verso la fine del film, a forte impronta teatrale, in cui si coglie l’abilità del regista di mantenere serrato il ritmo della pellicola senza rinunciare alla profondità del dialogo e della sceneggiatura (cofirmata da Miale con Di Leva e Bruno Oliviero): Carmine vuole la pistola di Ciro per vendicare il suocero e Ciro, con l’ultimo fiato che gli resta, convince l’amico (e se stesso) a rinunciare alla vendetta, sono entrambi vittime ed entrambi aprono uno spiraglio alla speranza. Una decisione che mi ha ricordato il capolavoro di Martin McDonagh Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
“Ti voglio bene” dice il figlio.
“Quanto?” chiede il padre.
“Assai”
“Assai assai quanto?”
“Assaissimo!”
Il miracolo che è Nottefonda si compie – oltre che per la bravura del regista Miale di Mauro che smentisce il luogo comune per il quale cinema e teatro sono mestieri diversi – grazie all’empatia straordinaria che lega tutto il cast, a cominciare dalla coppia dei protagonisti Francesco e Mario Di Leva, padre e figlio sullo schermo e nella vita. Impossibile prevedere se questo sia l’inizio di un sodalizio cinematografico o un unicum irripetibile. Certamente dietro “Nottefonda” sta una meravigliosa storia di teatro che da dieci anni riunisce un gruppo di professionisti amici. Ma c’è anche un progetto di vita che sta guarendo un pezzo di Napoli e adesso ha prodotto un film che girerà nelle sale italiane.
«Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire», cantava Battiato. Difficile ma non impossibile, se è vero che questo film ci ricorda che l’alba esiste in ogni nostra notte fonda.


