A proposito di "Nata nell'acqua sporca"
Napoli è femmina
Una adolescente che cerca di sfuggire l'inferno, una madre che non sa proteggerla: il romanzo d'esordio di Giuliana Vitali ruota intorno a una città e a due donne
Se dovessimo ragionare come Flannery O’Connor, ci verrebbe da dire, a proposito del romanzo d’esordio di Giuliana Vitali (Nata nell’acqua sporca, Giulio Perrone Editore, 18 Euro) “Quante facce può avere il diavolo, e quante forme può assumere l’inferno, e quanto viene dopotutto spontaneo, disponendo del libero arbitrio, propendere per il diavolo e l’inferno, scegliendo di non potersi permettere Dio, gli Angeli, il Paradiso”.
Se dovessimo poi riassumere cosa è Napoli in questo romanzo, assumendo un’espressione che vi ricorre, Giù Napoli, dove giù sta per vascë, anzi abbàscë (come quando si usa dowtown per intendere il sud di Manhattan, NYC), allora potremmo tranquillamente dire che è un inferno in cui c’è un paradiso, non distante anzi contiguo, ma perennemente non scelto, e che è inferno, è anzi la sua porta che va dritta ai Quartieri (Spagnoli), proprio via Toledo, cioè, insieme a via dei Mille, una via centrale affollata di gente che vive come nel Gran Paese dei Balocchi, offrendosi a ogni tentazione e tentatore per sostituire l’orrore corrente della vita vera con una temporanea vita da fiction.
Stavolta però Pinocchio è donna, e anche Alice.
È una ragazza di scarsi diciotto anni: è la piccola Sara, piccola anche fisicamente, mingherlina in un mondo di bolidi fisici, perfettamente integrata nel degrado urbano in cui come molti vive tra fumo e coca (gli obiettivi di ogni sua giornata) e assaggia le relazioni, o, forse meglio, la vita di relazione, vagheggiando una normalità borghese, fatta di famiglia casa lavoro, non come progetti sogni desideri, ma come chiave di scomparsa definitiva dai radar del controllo di adulti in cui Sara vede realizzato (male) tutto questo, per cui vive immersa nel giusto grado di disgusto.
Tutto è all’insegna della disillusione, del brutto come costante della vita umana, in un milieu popolare che per esempio ha almeno due connotati da ricondurre alla poetica di Pasolini: l’estetica del brutto e l’appartenenza antropologica a una specie di mezza cosa la cui spia più efficace, poiché inconsapevole, inconscia – direbbe qui Freud, è il linguaggio (il quale mischia senza criterio livelli diversi cioè dissimili pur tenendoli insieme, e, mescolando alto e basso, lega gli uni agli altri elementi linguistici a volte affettati, politi, con scivolamenti in un dialetto che è cauto, cioè non è pieno: ad esso nessuno del tutto si abbandona. È come la “parlata centrale” che Pasolini rinveniva nelle nuove generazioni del secondo dopoguerra: proprio lì cominciava a realizzarsi una globalizzazione che stava già abbattendo le differenze per mischiare tutto in un unico flusso caotico, un fluido indistinto appunto.
E così sono queste vite dopo il Duemila. Indistinte. Ammatassate. Lasche. Lascive. Inconsapevoli d’essere eterodirette. Convinte anzi di essere autonome, indipendenti, ribelli, anti-sistema. Creature illuse, non pirandelliane poiché già smascherate.
Ciò che accade loro suscita pietà e rabbia nello stesso momento, e si avverte che verso di loro questo è il più autentico sentire anche nella voce narrante.
Ne emerge una visione contraddittoria non per mancanza di etica o per indecisione nel punto di vista ma perché è il mondo osservato a non avere nessun centro, nessuna direzione.
Una madre riprende la figlia anzi cerca di riportarsela a casa: lo fa non per amore ma per obbedienza a delle convenzioni, a delle false regole sociali, ambientali, e non interiori. Eppure il laccio madre-figlia è un punto focale del libro
Tutti soggiacciono a un ricatto di fondo e a una loro impresentabilità che è resa come questione fisica ma non consiste in questo. Le figure sono tutte deformate come gli orologi di Dalì, e sgocciolano come accade al corpo della madre e, in scala e in parallelo. alla centrale guasta, in Rosso Americano di Rick Moody.
Perché poi in letteratura il punto è questo.
In sostanza cosa davvero mettiamo sotto il naso del lettore che, come gli antieroi meno che epici di questo romanzo, è travolto e stravolto? Delle figure. Disegni, strutture, cornici. Tutto ciò che può o riesce a tracciare a raffigurare e a lasciar affiorare linee nitide rivelatrici di ciò che non vediamo affogato com’è nel caos reale, nel flusso continuo di moti disordinati che avvolgono e spesso attraversano, smontandole, le nostre vite.
Va da sé che, per fare questo, il designer, progettista più di quanto si sia disposti ad ammettere, debba avere già nitide e limpide quelle linee davanti a sé, o, meglio ancora, abbia nello sguardo gli strumenti ottici adatti a una simile visione, chiara per sé e illustrativa per tutti gli altri, e Giuliana Vitali possiede tutto questo.
In questa ottica dobbiamo considerare anche il fatto che questo romanzo dopotutto discute l’idea stessa del romanzo di formazione, più che nel senso di bildungs-roman, proprio nel senso anglo-sassone di novel of growing up. Prende quota e corpo, soprattutto per tutta la sezione centrale del libro, la reciproca marcatura stretta tra racconto del tempo corrente e flashbacks dal periodo idealmente dorato dell’infanzia, con tutte le aspettative e le illusioni intatte ma, noi lo sappiamo già, destinate a infrangersi contro la parete dura della vita ordinaria che ci risucchia sistemandoci come insetti, come coleotteri di già consolidata tradizione, negli angoli e negli anfratti delle nostre case colme di sporcizia e masserizie e piatti incrostati, mentre da dietro la porta qualcuno ancora cerca di tirarci indietro a una forma umana e intanto ci ripensa e si arrende e ci lancia una mela che finisce incastrata nel carapace.
L’abilità sta qui nel sedurci con i diabolici dettagli che infestano ogni vita fino a farne lo specifico, unico e irripetibile ritratto, lasciando nelle pieghe e nei coni d’ombra tutto il senso, e la denuncia che investe la condizione della persona e l’esistenza/iattura della donna. Eppure proprio in fondo al libro, il suo vero oggetto si manifesta senza più travestimenti, figlio di un ritmo incalzante e, va detto e si è detto, di un montaggio che fa invidia al cinema di qualità, o ai franchise più convincenti includendo nella costruzione di questa vicenda esemplare e attuale, proprio in coda, un genere che è del new journalism: il reportage, le interviste d’inchiesta, la presa diretta sulla realtà.
È di nuovo focus/tema e la sua raffigurazione. La fotografia di una condivisione tra madre e figlia che sigla la loro genuina intesa. Femminile ed esistenziale.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


