Ida Meneghello
Dalla vita all'immagine

Cinema e verità

Incontro con il regista Francesco Costabile che ha avuto molto successo con il film "Familia": «Nel cinema è essenziale l'immaginazione. Anche quando si tratta di temi difficili o violenti»

Il grande pubblico lo ha scoperto grazie al suo ultimo film Familia, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia e vincitore di un David per il migliore attore non protagonista. Ma Francesco Costabile non è un esordiente, fa cinema da vent’anni, Familia è il suo secondo film e tra i giovani registi italiani, quelli nati negli anni ’80 del 900, vanta un palmarès invidiabile di nomination e premi (per un soffio la sua pellicola non si è aggiudicata anche i David per la migliore attrice non protagonista e per la sceneggiatura non originale). 

Partendo da questo film che affronta in modo inconsueto il tema della violenza sulle donne all’interno della famiglia, Succedeoggi ha incontrato il regista cosentino per una riflessione a tutto campo sul suo percorso e sul cinema italiano oggi. 

Familia è il film che l’ha fatta conoscere dal grande pubblico: prima il premio a Francesco Gheghi come miglior attore alla Mostra di Venezia, poi il David per l’attore non protagonista a Francesco Di Leva. Considera Familia uno spartiacque nella sua carriera di regista?

Certo, anche se già il mio primo lungometraggio, Una femmina, affrontava la violenza di genere nella famiglia, nell’ambito dell’ndrangheta. In Familia ho fatto un passo avanti nell’esplorazione di un tema che mi appartiene e che è centrale nella costruzione della mia identità. È un film che mi ha coinvolto profondamente per la vicinanza con le vittime, con Gigi che ha ucciso il padre, con sua madre Licia. Sentivo la responsabilità di raccontare una storia vera vissuta da persone reali e che diventava una sorta di terapia anche per me, per affrontare il rapporto con mio padre. Il secondo film è sempre uno spartiacque, perché nel film d’esordio non hai niente da perdere, invece il secondo alza l’asticella delle aspettative e il suo esito condizionerà il tuo percorso futuro. 

Il soggetto di Familia è nel libro Non sarà sempre così di Luigi Celeste. Com’è nata l’idea di portare sul grande schermo questa storia drammatica in cui un figlio arriva a uccidere il padre?

Il libro mi è stato proposto dall’editor di Medusa, Lucia Cereda. Una storia vicina alla mia sensibilità ma un libro complesso, che attraversa 23 anni di vita, la sceneggiatura ha comportato un grande lavoro di sintesi. Ho conosciuto la famiglia, ho letto gli atti del processo, ho frequentato i centri antiviolenza perché volevo raccogliere le testimonianze di altre donne che mi hanno ispirato poi scene del film che hanno arricchito la storia della famiglia Celeste. 

Il film affronta il tema della violenza di genere e della cultura patriarcale e lo fa in modo originale: lei ha scelto di non esibire la violenza fisica e di concentrarsi sulla violenza psicologica, lasciando intuire allo spettatore il peggio che avviene fuori campo, o dietro una porta. 

Credo che il punto di rottura del film, rispetto ad altre pellicole simili, sia che la violenza fisica non viene mostrata, ma comunque trasmessa con durezza allo spettatore, metterla fuori campo fa scattare l’immaginazione che è sempre più forte della visione. L’altro punto di rottura è mostrare l’ambivalenza dei personaggi: Gigi è una vittima ma è anche un fascista che pratica la violenza sugli altri, suo padre Franco non è un mostro, è anche un uomo che seduce i figli e li inganna, e sua madre Licia accoglie in casa il suo carnefice. Sono personaggi contraddittori e questo non è scontato. 

Come ha ricostruito l’ambiente neofascista in cui Gigi cerca un’altra famiglia e che è inaccessibile per chi non vi appartiene?

Ho raccolto molti elementi, attraverso video, libri, interviste. E ho avuto il coraggio di avere contatti diretti con gli ambienti neofascisti romani. Il film è ambientato nel 2008 a Roma, quindi nel momento di ascesa di Casa Pound. E ammetto che c’è stata molta disponibilità da parte loro nel raccontarsi, nel collaborare. È stato comunque un set difficile. 

Un esempio?

Francesco di Leva, che impersonava il padre, la sua violenza cupa, quando rientrava da Napoli dopo il weekend ci portava sempre le sfogliatelle, come per farsi perdonare, per togliere un po’ di pesantezza al personaggio. Nonostante la violenza del film, sul set non c’è stata nessuna tensione, ci coccolavamo a vicenda, eravamo tutti molto emozionati e coinvolti. È importante mantenere sul set un’atmosfera serena, l’ho sempre cercata evitando di trasmettere la mia ansia. 

Fare il regista cinematografico era quello che voleva fare da grande oppure, come Wim Wenders che avrebbe voluto diventare pittore, sognava un altro percorso artistico?

L’ho sognato fin da bambino. L’ho deciso quando a dieci anni ho visto in tv I segreti di Twin Peaks, non sapevo neanche che mestiere fosse il regista, ma ho detto ai miei: io farò il regista. Perciò quando è arrivato il momento di scegliere, mi sono iscritto al DAMS di Bologna e poi sono riuscito a entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. 

Oggi lei vive stabilmente a Bologna. 

Amo la sua dimensione di comunità, perciò quando ho fatto il concorso per insegnare nelle scuole grafica e fotografia, ho scelto l’Emilia-Romagna. Il cinema si fa a Roma ma si vede a Bologna, esco e vado in piazza Maggiore a vedere un film in mezzo alla gente e questa è una gioia assoluta. 

Quali sono per lei i valori non negoziabili quando fa un film?

Innanzitutto il “final cut”, cioè il montaggio, un film si costruisce col montaggio. Le serie tv non danno al regista questa garanzia perciò ho scelto di non farle, anche se mi sono state proposte. La scelta degli attori è il secondo punto, fare le prove con gli attori come si fa in teatro è per me molto importante. Firmare la sceneggiatura è fondamentale. E l’approccio etico, il film deve rappresentarmi. 

Prossimi progetti?

Ho in cantiere una sceneggiatura tratta dal libro Febbre di Jonathan Bazzi. 

Come valuta la situazione del cinema italiano oggi? Spesso gli spettatori hanno l’impressione di assistere a pellicole ripetitive e auto celebrative che riproducono schemi già visti e che non funzionano più neanche al botteghino. 

Mi colloco, come altri registi, in una posizione di resistenza rispetto a un’industria cinematografica omologata e pigra che ricicla modelli che si crede funzionino ancora, ma non è così. In Italia non c’è stato un ricambio generazionale, i produttori sono gli stessi di vent’anni fa. Spetta a noi autori e registi rompere questi schemi. 


Le fotografie sono di Francesco Pistilli.

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