Fabio Ciriachi
A proposito de "Il Sessantotto e noi”

Fantasie sul ’68

Romano Luperini e Beppe Corlito ragionano sul '68, sulle sue premesse e sulle sue conseguenze: un mondo che oggi - in Italia e non solo - appare davvero lontanissimo

Il Sessantotto e noi, opera a quattro mani di Romano Luperini e Beppe Corlito, ha per sottotitolo Testimonianza a due voci (Castelvecchi, 160 pagine, 18,50 Euro) ed è proprio sulla funzione di testimone che farei leva per suggerire di affrontarlo dalla fine, ovvero dall’«Appendice» che ha per titolo «Intervista all’avvocato Ezio Menzione, difensore di Ovidio Bompressi sull’omicidio di Calabresi».

Dare rilevanza a questo omicidio non vuol dire prendere le distanze dal ’68 ma, semmai, definire cronologicamente quello che, a nostro avviso, è stato il primo scoglio del Movimento, ovvero il periodo 1969-1972 che si apre col 12 dicembre della strage di piazza Fontana, alla quale segue, dopo solo tre giorni, l’assassinio di Giuseppe Pinelli, rubricato come suicidio al fine di legittimare la pista anarchica, per chiudersi, temporaneamente, con l’omicidio Calabresi (1972).

Già da qui si delinea come in quei tre anni scarsi, con tutto quello che seguirà sia a livello politico che giudiziario, i semi gioiosamente prodotti nell’euforia del ’68, passano, meno gioiosamente, in mani altre che li spargono nel terreno all’uopo preparato perché diano al meglio e il più a lungo possibile, al contrario di ciò che si sarebbe voluto, i loro velenosi frutti: connivenze fra poteri dello Stato e gruppi fascisti, ingiustizie sociali e giudiziarie, attentati che da piazza Fontana (’69), alle stragi di piazza della Loggia e del treno Italicus (maggio e agosto ‘74), alla strage di Bologna (’80), e a quella del Rapido 904 (’84) insanguinano l’Italia, uccidono, oltre agli individui, le verità fattuali e processuali e trasformano gli attori di un processo che si voleva di liberazione e di allargamento dei diritti in semplici sudditi, intesi nell’unico significato di sottomessi, come quasi tutti, di fatto, ancora siamo.

Se però osserviamo l’omicidio Calabresi da una prospettiva altra da quella processuale (nelle risposte dell’avvocato Menzione appare fino a un certo punto) in assenza di prove e indizi, da scrittori proviamo a lavorare di fantasia, come alle prese con una trama romanzesca. Liberi d’inventare, supponiamo che, essendo quella di piazza Fontana una strage di Stato, sia stato importante subito depistare, ma Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, che avrebbero dovuto essere le toppe, alla fine non funzionano.

Pinelli, volenti o nolenti, lo ammazzano e per rimediare simulano il suicidio che dovrebbe attestare, addirittura, la sua implicita colpevolezza. Con Valpreda la tirano per le lunghe, la via legale avrà i soliti tempi infiniti e si sa che tutto resterà impunito. Ma qualcosa non funziona. Per coprire la morte di Pinelli occorrerebbe piena omertà, e qui fa il suo ingresso l’imprevedibile. Supponiamo, sempre romanzescamente, che col tempo uno dei protagonisti di quella vicenda, il commissario Luigi Calabresi, per esempio, non ce la faccia a tenersi quel peso sulla coscienza. Lo rimugina dentro a lungo, si confida con un collega amico affinché lo aiuti a risolvere il problema, si spinge a dire al collega amico, addirittura, che può liberarsi solo denunciando l’accaduto.

Il collega, non molto amico, riferisce a chi di dovere i turbamenti di Calabresi. Se non c’è modo di convincerlo al silenzio, deve morire. Anzi, meglio ancora, morire creando i presupposti perché la responsabilità dell’omicidio ricada sui gruppi che resistono. Nella fattispecie, Lotta Continua che, col suo giornale si espone più di altri.

Ora, digressione romanzesca a parte, sia Luperini che Corlito, attivi politicamente negli anni di cui testimoniano, sono troppo avveduti e consapevoli per non iniziare il loro lavoro a quattro mani con una «Premessa» intitolata «Un paradosso ironico» che così si apre: “Per qualche mese, a partire dall’inverno 2022-2023, gli autori di questo libro hanno discusso sul Sessantotto. Un paradosso ironico. In quelle settimane andava al potere in Italia un governo di estrema destra, il più a destra nella storia della nostra Repubblica”.

Ironia per ironia, se mentre loro lo scrivevano, oltre al governo italiano di estrema destra la Russia aveva già invaso l’Ucraina e il 7 ottobre di Hamas non doveva essere neanche all’orizzonte se, come si è visto, nemmeno gli occhiuti Servizi israeliani se n’erano accorti, ebbene, se al tempo in cui lo scrivevano l’iniziativa poteva già avere del paradossale, ora che lo leggiamo e proviamo a recensirlo, l’epoca si è fatta ancora più straniante: il golpista Trump è stato rieletto a furor di popolo e ha cominciato a prendere a calci il mondo e sé stesso, dopo un anno e mezzo di bombardamenti che sono costati decine di migliaia di morti tra la popolazione civile, ciò che resta dei palestinesi di Gaza sta per essere deportato in un non meglio definito sud, il Governo d’Israele prosegue il programma di guerra continua così che il suo leader possa non rispondere delle proprie colpe giudiziarie, la Russia continua a martoriare l’Ucraina, l’India bombarda il Pakistan, e un po’ dappertutto, non solo in Europa, le masse, bontà loro, hanno tutte una gran voglia di destra, di donne sole, o uomini soli, al comando che facciano la cosa giusta protetti dal poter essere al di sopra della legge.

Questo per dire che alla luce del presente, la testimonianza sul Sessantotto, nelle voci alternate di Luperini e Corlito, fa sembrare quei giorni, anche i migliori e più speranzosi, lontani secoli dallo sfacelo di oggi che detta legge, in modo impietoso, anche sul passato di allora.

Il lavoro di scrittura di entrambi, iniziato per fare ulteriore chiarezza su uno snodo politico e sociale non molto definito dalla storiografia, rischia adesso di venir travolto da suggestioni che inclinano a considerare – proprio perché la messa a fuoco lo mostra con maggior chiarezza – che, nel ’68 e oltre, la malattia infantile del comunismo non si limitava all’estremismo perché c’era anche il leaderismo, causa di gravi divisioni soprattutto nella sinistra extraparlamentare, che mostravano quanto i suoi componenti fossero incapaci di stare in un insieme la cui linea politica fosse decisa a maggioranza, democraticamente, cercando di vincere attraverso la capacità di convincere, ma restando uniti e di conseguenza forti.

Tra la premessa e l’appendice, già da sole dense di temi, spunti critici, riflessioni, scorrono i capitoli organizzati per temi. Inevitabile che il primo si apra con la domanda retorica “Uno o tanti Sessantotto? Il Sessantotto fenomeno globale”, e da questa domanda scorrono le risposte, ora dell’uno, ora dell’altro.

Corlito, che è psicoterapeuta e viene dal Potere Operaio Pisano, abbozza una genealogia accennando a una partenza americana, nel ’66, a Berkley, in California, basata sui temi dell’antiautoritarismo e sull’accusa alle università americane di funzionare come fabbriche di studenti subalterne alla produzione al pari di macchine (impossibile non sentire l’urto di quel passato con un presente in cui Trump e Maga si scagliano contro le università, Harvard e la Columbia, tanto per dire, accusate addirittura di non insegnare la verità, che è un argomento da 1984), e chiamando in causa i contributi degli storici Giovanni De Luna e Edgar Morin.

Luperini, professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Siena, distingue un Sessantotto degli studenti più o meno contemporaneo al Sessantotto operaio, e poi, sfasato di qualche anno, il Sessantotto delle donne. Fa riferimento a una pubblicistica di saggi che vede attivo un nuovo editore, Feltrinelli. Parla dell’ulteriore traduzione di narrativa statunitense e sudamericana, della nascita di riviste come la pisana “Nuovo Impegno”, e poi “Quaderni Rossi”, “Quaderni piacentini”.

Testimoniando ciascuno dalla propria posizione specifica, con un susseguirsi di capitoli organizzati cronologicamente su temi che mirano il più possibile a metterne in evidenza gli aspetti peculiari, si seguono i due racconti come fili spesso contigui di vicende abbastanza simili, in quanto entrambe collegate ad aspetti del Sessantotto toscano.

La consapevolezza della parzialità della testimonianza induce a un relativo approfondimento. Tra i vari temi toccati, interessanti, quelli relativi all’uso della violenza e dei legami, lungo gli anni Settanta, tra Movimenti e terrorismo, quelli del rapporto tra democrazia e rivoluzione, e la nota dolente, a nostro avviso, della frammentazione in gruppi spesso in aspro conflitto fra loro (Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Autonomia Operaia, Lotta Continua). Né Luperini né Corlito sfiorano mai il pontificare dogmatico che ha nuociuto ad analoghi tentativi di testimonianze.

Che il loro esperimento funzioni, malgrado la parzialità della prospettiva adottata, lo dice chiaramente il modo in cui ciascuno attraversa senza pudori il proprio Sessantotto, chiamando semplicemente per nome ciò che accadeva, incluse le proprie soddisfazioni di attivisti con relative egemonie locali, e sempre, però, accompagnati da una prassi prudente che ha permesso loro di non perdersi nell’avventura di parole d’ordine impossibili e di vivere il tempo della Storia con la pazienza della comprensione.

Il che consente loro di essere ancora attivi in ambito politico/culturale, Luperini con la direzione delle riviste “Allegoria” e “Moderna” e del blog “La letteratura e noi”; e Corlito come redattore di “Allegoria”, interessato alla critica letteraria dal punto di vista psicoanalitico e membro del comitato scientifico della Fondazione Bianciardi.

Se possiamo chiudere con una punta di rammarico, non ci sarebbe dispiaciuta una maggiore attenzione allo stato della letteratura in quegli anni così invisi alla narrativa e che pure hanno accolto il Vogliamo tutto, di Nanni Balestrini (’71), il corto circuito, nel ’74, fra La storia, di Elsa Morante e Corporale, di Paolo Volponi, l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, nel ’75, che conteneva già in sé le pagine politiche di Petrolio, uscito solo nel ’92. Ma qui, forse, il lavoro avrebbe rischiato un allargamento che non ce l’avrebbe fatta a stare in un solo volume.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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