“Aneddoti letterari”
Da Petrarca a Scheiwiller
Il filologo Carlo Pulsoni e il paleografo Antonio Ciaralli raccontano in un libro le avventure di alcuni celebri testi risalendo alle loro origini e alla loro autenticità. Nella convinzione che ricostruire la genesi di un testo poetico sia tanto importante quanto l’esito di «poesia raggiunta»
Può la ricerca specialistica di alto, anzi di altissimo livello, diventare non solo utile ma anche piacevole momento di lettura e riflessione per un pubblico di proverbiali “non addetti ai lavori”? Laddove per addetti ai lavori si intendano in senso stretto coloro che per professione si occupano di ricerca scientifica in ambito prevalentemente accademico. Il filologo romanzo Carlo Pulsoni e il paleografo Antonio Ciaralli, entrambi docenti dell’Università di Perugia, presentando alcuni loro recenti lavori in un volume intitolato, per pregevole understatement, Aneddoti letterari (Edizioni di Storia e Letterarura, Roma 2024, 260 pagine, 24 euro), dimostrano che la cosa è possibile. Il sottotitolo del volume recita Da Petrarca a Scheiwiller e le annotazioni che seguono proveranno a chiarirne il significato.
Il libro si compone in effetti di cinque saggi, ma meglio sarebbe dire cinque racconti; ogni autore ne ha scritti due, un quinto è redatto da entrambi; l’intero volume è di ideazione condivisa. Nella disposizione dei saggi non viene osservata una progressione cronologica, semmai si colgono relazioni e motivi ricorrenti tra di essi, come la complessa ricerca che porta all’edizione di un testo, ne vaglia l’autenticità – il breve saggio paleografico di Antonio Ciaralli su un falso leopardiano – ne illumina il percorso editoriale. Talora è addirittura in discussione la “scoperta” di un testo, e non un testo qualsiasi; si tratta addirittura del manoscritto autografo del Canzoniere di Francesco Petrarca che la comunità scientifica, ancora all’altezza del 1886, considerava perduto. Il manoscritto che Petrarca aveva in parte vergato con la sua bellissima scrittura di gusto preumanistico e in parte affidato a un copista di sua fiducia era servito a Pietro Bembo per approntare la celebre edizione aldina del 1501, poi era passato alla biblioteca di Fulvio Orsini, confluita nel 1600, alla morte del grande collezionista, nella Biblioteca Apostolica Vaticana dove le sue tracce si erano inspiegabilmente perse.
Ora proprio a inizio di quel 1886 due studiosi, il francese Pierre de Nolhac e il prussiano Arthur Pakscher erano quasi contemporaneamente, e ciascuno per proprio conto, giunti a identificare con sicurezza nelle collezioni della Biblioteca Apostolica il preziosissimo manoscritto, mediante soprattutto una serie di raffronti con altri codici del poeta: una “scoperta” sensazionale – ma si trattò in realtà di una riscoperta – che avrebbe dovuto rallegrare l’intero mondo degli studi. Non fu così: tra i due si scatenò invero una gara senza esclusione di colpi nel tentativo di aggiudicarsi la prima posizione al nastro di arrivo, e sull’esatta situazione del nastro si dovrà pronunciare, e lo fece con molto tatto, l’Accademia dei Lincei. Si segue stupefatti tale incredibile intricatissima vicenda che Carlo Pulsoni ricostruisce con chiarezza grazie a una accurata ricerca di carte d’archivio ed epistolari, e non senza una velata dose di ironia, facendoci intendere come la primazia nella scoperta del codice petrarchesco – diamogli il suo nome: il Vaticano Latino 3195 – aveva altri riscontri che esulavano dal campo degli studi e traevano linfa dal clima di crescente nazionalismo caratterizzante la politica europea di fine secolo. Freschissimo, tra Francia e rinato Impero di Germania, era ancora il ricordo di Sedan; quanto agli italiani, freschi invece di unificazione nazionale, come avevano potuto lasciare in mani straniere le carte del loro Poeta? E che dire poi dei reverendi bibliotecari vaticani, che detenevano il meraviglioso codice del Canzoniere a loro insaputa? C’era tutto quanto occorreva per dar vita a una spiacevole e a tratti anche astiosa polemica a cui quasi nessuno si sottrasse e fu chiusa tuttavia con una soluzione compromissoria tra i due studiosi.
Prendo a modello questo saggio per notare come un argomento di così evidente carattere specialistico possa essere reso, senza scendere per i territori incerti della “divulgazione”, in una forma scientifica non solo chiara ma anche avvincente, e raggiunta talora semplicemente lasciando parlare le carte. Ed è quanto avviene anche negli altri racconti di questo bel libro, come quello importante che vede al suo centro la genesi e l’evoluzione di una celebre poesia di Ungaretti, scritta a San Paolo in seguito alla morte del figlio Antonietto, nel novembre del ’39. La poesia sgorga quasi come un urlo, dettato dalla disperazione impotente del padre ed è all’origine di una serie di componimenti che entreranno ne Il Dolore (1947), ma di quel libro non farà parte, sentendola il poeta come troppo intima e lacerante per essere pubblicata. Uscirà per la prima volta nel 1950, nella terza pagina de Il Popolo di Roma diretta da Leone Piccioni, con il titolo “Gridasti: soffoco…” per poi trovare forma definitiva solo in Un grido e paesaggi, libro edito a Milano da Schwarz nel 1952, e si tratta di una forma che mantiene assai poco della prima stesura. Risulta davvero sorprendente l’elaborazione di questo testo che Antonio Ciaralli ricostruisce nelle sue due distinte fasi – prima e dopo la pubblicazione del 1950 – nel solco di un iter a tratti febbrile, sul quale incidono in quegli stessi anni anche le due traduzioni francesi che Ungaretti segue da vicino e non ne è sempre soddisfatto (una delle due è del poeta Philippe Jaccottet). Il numero delle varianti e rielaborazioni, che si può riscontrare anche sulle tavole fotografiche utilmente allegate al testo, è esorbitante, e modifica in modo sensibile anche l’idea storicizzata di un poeta della parola nuda, “ricevuta”, come scriveva Gianfranco Contini, poco convinto sul di lui effettivo “travaglio compositivo”. Vero che a quell’altezza Ungaretti è distante dalla grazia drammatica e scarnificata del libro di esordio che gli aveva dato, e tuttora gli dà, un posto di rilievo nella poesia italiana del Novecento: il recupero dei metri della tradizione è stato avviato da tempo e si è misurato sulle versioni di un caposaldo della poesia barocca come Gongora. Proprio per questo anche gli interventi autografi di «apparente marginalità» – osserva Ciaralli – «appartengono invece all’Ungaretti più profondo, a quello che misura tempi e modi del verso».
Pura erudizione per specialisti? Direi proprio di no. Epperò è davvero così importante ricostruire per filo e per segno la lunghissima genesi di un testo poetico, quando se ne possegga già la «poesia raggiunta» (L. Piccioni)? Risponderei senz’altro di sì. E penso sia importante farlo, oltre che con perizia, con chiarezza, come qui avviene, poiché ciò aiuta ovviamente a riflettere non solo chi la letteratura per professione frequenta, ma anche un pubblico più largo, giovane, che si avvicina alla poesia e inevitabilmente si interroga sul suo statuto, su meccanismi che le danno vita, sui suoi più o meno confessabili segreti. Ed è argomento questo che interessa anche il terzo saggio del libro, in merito al montaliano autografo di “Arsenio”, poesia notissima che entra negli Ossi di seppia solo con la seconda edizione (1928). Il saggio è scritto a quattro mani e ancora una volta sono le carte a parlare, quelle della cospicua biblioteca di Mario Praz in cui è presente il testo della poesia pubblicato per la prima volta su «Solaria» nel 1927; sulle pagine della copia di Praz compaiono le varianti manoscritte a penna e a matita da Montale, in ragione di due modifiche poi accolte nell’edizione del ’28. Anche qui è utile il riscontro fotografico delle pagine di «Solaria» che Praz teneva insieme alla prima edizione degli Ossi e al testo dell’importante traduzione di “Arsenio” da lui approntata per la pubblicazione su «Criterion», la rivista diretta da T. S. Eliot.
Ricco di diversi altri spunti è questo saggio, così come il saggio di Pulsoni, a chiusura del libro, intitolato “Nel mondo di Vanni Scheiwiller”. Titolo quanto mai indovinato perché davvero l’avventura editoriale di Vanni fu un mondo, e per sincerarsene basterebbe dare uno sguardo al catalogo storico della casa editrice pubblicato da Unicopli nel 2013 a cura di Laura Novati. Pulsoni, che più volte si è occupato di Vanni – sua è tra l’altro la cura di Vanni Scheiwiller editore europeo, Volumnia 2011 – centra il suo racconto, basato principalmente sulle carte conservate a Milano presso il Centro Apice, sul rapporto tra Vanni e Pasolini. Un incontro segnato dalla iniziale diffidenza del poeta di Casarsa, contrarissimo all’appello promosso da Vanni per la liberazione di Ezra Pound dal manicomio criminale di Saint Elisabeth. In seguito – decisiva sarà nel ’65 la Settimana della Poesia al Festival dei Due Mondi di Spoleto – Pasolini cambierà radicalmente opinione su Pound e i rapporti con il giovane editore milanese diventeranno di più cordiale collaborazione e reciproca, pur nelle sensibili differenze ideologiche, stima. Si doveva intanto proprio a Pasolini l’aver presentato a Vanni la poesia di un Biagio Marin giunto alla settantina pressoché sconosciuto fuori dal suo ristretto ambito regionale, così come si dovrà a Vanni l’aver accettato con convinzione l’idea di pubblicarne una raccolta antologica, a cura e con l’introduzione dello stesso Pasolini.
La storia di questa antologia, la scelta dei testi – pochi, raccomandava Vanni, «anche il poeta ci guadagna» – del titolo, del formato, il taglio dell’introduzione sono un racconto nel racconto: tutto sembra fatto per ferire la sensibilità dell’anziano poeta di Grado, che sotto la tegola dei settant’anni ambirebbe a qualcosa come un solido e dignitoso monumento editoriale, anziché un agile elegante “pesce d’oro” scheiwilleriano. I malumori affiorano nei carteggi e “Biaseto” finirà per far buon viso a cattiva sorte. L’edizione – Solitàe, 1961 – è tra le cose impeccabili dell’arte di Vanni, che se ne fa promotore instancabile presso i più importanti poeti e critici di allora e continuerà a pubblicare Marin negli anni a venire, diventandone il principale e più affezionato editore, e così imponendolo definitivamente all’attenzione del talora distratto “pubblico della poesia”. Anche in questo caso le carte, studiate e sagacemente “montate” dal filologo, parlano e ci raccontano un mondo che ha avuto termine solo pochi anni fa, ma che ci appare purtroppo e irrevocabilmente così lontano.