A proposito di “Sparring Partner”
I pugni di Maia
Andrea Caterini ha scritto un libro che racconta di disagio, di sconfitte, di palestre, di genitori e di pugilato: davvero un romanzo mancato
Mi interessa la poetica di Andrea Caterini, la sua ricerca letteraria… ma il suo nuovo libro sulla boxe, Sparring Partner (ES editore, 10 Euro), non mi ha convinto fino in fondo e provo a darne conto. Un libro ibrido, molto personale, proprio nello spirito della collana S-confini diretta da Fabrizio Coscia, – fra racconto autobiografico e meditazione filosofico-esistenziale sul pugilato, mai chiamato nel libro Noble art, curiosamente – benché proprio in quella chiave semantica, epistemologica, si configura da subito sulla pagina, come disciplina etica anzitutto; – pugilato che l’autore ha praticato agonisticamente in gioventù, e di nuovo adesso, sui 40 anni, con altra consapevolezza, altro fisico, per un ritorno di fiamma, anche un po’ letterario, vitalistico, diresti, per riappropriarsi di uno spazio perduto – dopo molti anni lontano dal ring e dall’odore aspro delle palestre, – anni erratici, passati perlopiù in giro per l’Italia nella veste di autore televisivo-scrittore itinerante in programmi di viaggi che gli sono valsi anche dei libri: Ritorno in Italia (Vallecchi) – oggi Andrea Caterini frequenta di nuovo ring e palestre, questo racconta, ma in ruolo diverso, più adatto all’età, nella veste di sparring partner di atleti fra cui una giovane pugilessa italo-slovena, Maia, temporaneamente trapiantata a Roma, che gravita nella sua “storica” palestra di borgata; dotata di un istinto pugilistico innato, “selvatico”, “animale”, lei, ma già segnata dallo stigma della sconfitta, per farla breve, proprio come lui in fondo per altre vie.
Il racconto – alternando la prima e la seconda persona – scandisce le tappe della preparazione di Maia, la giovane pugilessa, a un incontro importante, in un setting che l’autore rende con precisione anche antropologica, – il protagonista intanto instaura un corpo a corpo più che con lei, con sé stesso, con i suoi doppi e tripli, ruminando sulla sua vicenda esistenziale di uomo e di scrittore che si sente sradicato, “disappartenente”, che ha elevato il pugilato a paradigma esistenziale, assoluto, quasi metafisico: «Il rito permette all’umano di rivelarsi», si legge nelle note al volume. «Per riappropriarsi di un luogo in cui riconoscersi a tutto tondo», nello spazio simbolico del ring, uno spazio “sacro”, rituale – come emerge in mille varianti allegoriche, metaforiche, fin dalle prime pagine, e come ha ripetuto – in un vibrante intervento critico nel corso di una intervista pubblica cui ho assistito al premio La Cava dove il libro era meritato finalista. Una frase ti aveva colpito di quell’intervista: una specie di aforisma, forse un tantino enfatico impegnativo – «non basta essere umili, bisogna umiliarsi!». Alla fine ti aspettavi tuttavia leggendo il libro così come si sviluppa sulla pagina, che la relazione con la pugilessa, andasse oltre il rapporto professionale, pur quello speculare proiettivo dello sparring, il libro diventasse romanzo, – storia d’amore, di seduzione, dopo tanto temporeggiare – che Caterini aggredisse quella comfort-zone dell’autoanalisi letteraria estenuante, declinata in senso di colpa, dolore, perdita, vuoto, espiazione, sacrificio, – prendendosi lo spazio narrativo necessario, rischiando anche la stecca!; il racconto sembrava spingere in quella direzione, prima di sferrare il colpo finale – insomma tu da narratore ragionavi così – ma così non è, zuccone!, ti direbbe il critico, e il Caterini ne ha parecchi, di critici-scrittori sodali, Cordelli, Ottaviani, Onofri, Colasanti ecc – non è la storia, il plot, il perno del libro, ti direbbero, insofferenti delle tue strutture mentali ottocentesche, – è la figura paterna semmai con la sua fragilità, il peso della sconfitta, quell’immagine struggente evocativa del vecchio padre operaio che ha perso il lavoro, considerato in esubero, triste e depresso davanti alla tivù nel salotto di casa, certo, quel peso della sconfitta, del fallimento, dell’umiliazione paterna – inciso quasi nella carne, d’accordo, come un segno araldico, un destino, pure se ormai affrancato/riscattato socialmente, il Caterini, il suo personaggio, dallo spettro della professione paterna verso la quale si pensava destinato, con un lavoro culturale rispettabile in Rai, quello che desiderava, l’ideale per uno scrittore per un intellettuale ecc. e quindi per farla breve, per non tediare, lettura-letteratura salvifica, altro tema, il rapporto coi libri, e comunque romanzo verticale, saggistico-narrativo, zuccone, continuerebbero i critici, romanzo di letteratura alta, letteratura come “salvezza”, rivelazione, insomma in cerca di assoluti. «Il ring è da subito il luogo privilegiato di una sacralizzazione della vita» (Massimo Onofri).
Epperò, malgrado tutto, malgrado l’approccio totalizzante dell’autore alla letteratura, alla scrittura, che escluderebbe l’essersi egli in qualche modo risparmiato, o censurato, di non aver rischiato (osato) abbastanza, insomma; Sparring partner – mi è sembrata – per tutte le ragioni che ho detto o solo accennato, un’occasione narrativa mancata!
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


