Daniela Matronola
Su "Di spalle a questo mondo"

Le passioni di Ferdinando

Wanda Marasco ha raccontato la vita "toccante" di Ferdinando Palasciano, il medico napoletano che "inventò" la Croce Rossa. Un romanzo a due voci per raccontare i conflitti delle passioni

Un paio di estati fa, a me e a quanti c’erano (era fine luglio, a Castel di Sangro) capitò una piccola fortuna: una emozionata lettura da parte di Wanda Marasco, l’autrice in persona, di alcune pagine tratte da Di spalle a questo mondo (416 pagine, 20 Euro), il romanzo in libreria da gennaio scorso, edito da Neri Pozza nella collana Bloom, e dal 15 aprile in dozzina, dunque in corsa per il Premio Strega di quest’anno.

Il passo letto da Wanda Marasco, allora alle prese con la intricata matassa del corposo romanzo biografico, incentrato sulle figure di Ferdinando Palasciano e di sua moglie Olga, era talmente toccante che la stessa autrice fu travolta da un’onda di commozione finendo a lottare con i singhiozzi. Un passo di grande pietà, di profonda compassione per la sorte di un ciuchino nelle mani violente, cieche di un proprietario ignorante che lo maltratta in modo insensato, insopportabile. È uno degli episodi segnaletici del romanzo, la salvazione dell’asinello da parte di Ferdinando che vede in questa creatura sopraffatta una sua propria controfigura, così irrinunciabilmente si lancia a comprarlo per toglierlo al suo seviziatore, per correggere un assurdo che è per lui prima di tutto una conclamata ingiustizia.

Dovendo scegliere un aggettivo che riassuma in modo compiuto questo romanzo, la scelta dovrebbe cadere su toccante. È toccante l’amore che lega i due coniugi, Ferdinando Palasciano, medico di grande abnegazione e di esemplare umanità, e Olga, gentildonna russa, sua paziente e poi luce dei suoi occhi, sposa felice, piena di pietà per il furore di giustizia che inguaia il medico l’uomo il marito consegnandolo nelle ambigue mani di colleghi gelosi, di amici controversi, di concorrenti invidiosi. L’altalena pendolare, periodica, tra i due versanti della storia è indicata anche graficamente.

Le parti in carattere tondo sono la resa, tra un occhio esterno (voce narrante) e un’esplorazione interna, dei tormenti che torturano il protagonista, Ferdinando Palasciano, il quale volta le spalle alla società civile poiché non sopporta (forse istericamente, sicuramente in modo accorato) le palesi, inerziali e mai incolpevoli storture del sistema condiviso. Spia sicura dell’occhio esterno, la voce narrante, lo sguardo pieno di carità di Wanda Marasco, è lo spuntare, qua e là, di un verbo, stoppare, che esorbita completamente dal registro e dalla grana semantica della lingua accurata e poetica che avvolge questo romanzo in una pellicola d’amore. Un verbo che a Napoli si pronuncia con la o chiusa e ho l’impressione sia spia, di nuovo, di una classe, la borghesia istruita, e di una generazione, che include l’autrice a buon diritto; e forse contempera anche quell’anglo napoletano di cui Pino Daniele è stato pioniere ed espressione della conciliazione, nella propria persona, della canzone napoletana col blues, che era la sua vocazione soprattutto di strumentista. Segnalerei anche qualche aggettivazione estrema, cioè il modellamento di aggettivi come manichinico oppure soleare, insieme a totemico o materico già acquisiti, già comuni. Non sono stecche, sono note dissonanti là dove il jazz si lancia di più nel gusto dell’improvvisazione e delle sonorità inseguite lungo un dettato che deraglia e si perde in variazioni inattese.

Le parti in carattere corsivo sono, in controcanto, la versione di Olga, in prima persona. La sua voce è di disperazione, di dubbio, di tormento e combattimento tra la fedeltà devota di una moglie per un marito così onesto, giusto, innocente (come Penelope), e di aperta rivolta all’involuzione psicotica di quest’uomo che in fondo col suo delirio dà soddisfazione ai detrattori e cade ignominiosamente in disgrazia perdendo tutto (il soliloquio delirante di Olga un po’ fa pensare a Molly Bloom, la contro–Penelope joyciana).

Questo romanzo dal tessuto linguistico e narrativo avvolgente tradisce echi e suggestioni provenienti da fonti letterarie che l’autrice sicuramente ha avuto in mente e qui restituisce per contaminazione in modo del tutto spontaneo: c’è la Torre Martello a Sandycove da Ulisse di Joyce, c’è l’atmosfera controversa di certi  romanzi di Dostoevskji (I demoni, Le notti bianche), e c’è persino, in certi passi della vicenda psichiatrica di Ferdinando Palasciano, il profumo del dramma e dell’ avventura del Conte di Montecristo di Dumas: fallito e recluso, reietto agli occhi del suo mondo che lo rifiuta.

Però, si diceva, c’è una pellicola d’amore che avvolge il romanzo, filata dallo sguardo amorevole di Wanda Marasco per le sue creature. La parola pellicola non è casuale. Onestamente si sente in questo romanzo il respiro più profondo dell’eredità culturale, in senso ampio, che Napoli –Partenope riversa in queste pagine. C’è Napoli, c’è Partenope, c’è una creatura/creazione socioculturale che è del Regno di Napoli, della Napoli tra fine Ottocento e inizio Novecento, che è il setting, l’ambientazione delle vicende del romanzo: un intero mondo riportato alla luce che evoca una civiltà forse non completamente perduta, però certamente in bilico, come Olga, tra una lealtà a un’etica indiscussa e le tentazioni della modernità, dell’avanguardia, del progresso (o, domanda pasoliniana, dello sviluppo?).

Senonché…

Senonché specie noi lettori di oggi siamo onnubilati da un desiderio di realtà, o farei bene a dire di realismo e di verosimiglianza. Ma Wanda Marasco, partenopea, ha una parte spagnola nel suo DNA di autrice e nel fiato con cui respira l’aria di Napoli. In questo solco, la torre diventa il simbolo e il segno-cardine di una serie di rifrazioni attraverso cui, rovesciando il guanto, cioè capovolgendo l’assunto del romanzo e andandocelo a capare più giù, più a fondo, o meglio più in superficie, scopriamo che la torre, la merlata da cui Olga sorveglia e osserva, è la controfigura più attendibile del terribile gioco psicotico in cui si è inabissato Ferdinando, la torre è l’immagine del suo delirante arroccamento ed è il richiamo, la connessione remota con Sigismondo, il figlio rinchiuso a scopo di tutela dal re Basilio in quel dramma barocco che è La vida es sueño scritto da Pedro Calderòn de la Barca a soli trentacinque anni, nel 1635: la vita è sogno come il delirio ad occhi aperti, l’incubo lucido vissuto da Ferdinando, che per il resto è uomo di scienza: un malato irraggiungibile, vivrà ogni giorno come se emergesse da un sogno, questa la diagnosi che Barbarisi, fraterno amico, amico di famiglia, conferma a Olga, la sua Rosaura, faro di bellezza (poco importa stavolta che nel dramma di Calderòn la sorgente sia un oracolo di livello edipico).

Dunque i piani si moltiplicano, e a tenerli insieme, come collante e spirale vertiginosa, è il dettato, dotato di potente impatto incantatorio, messo in esercozio da Wanda Marasco, mescolando con innocente sapienza, con grazia spontanea, accudimento affettuoso e amore di verità, cognizione del dolore e fede nell’umanità.

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