La storia delle tradizioni popolari
Vestire l’identità
Intervista con Shahira Mehrez, storia dell'arte, una delle massime esperte dell'abito egiziano e della sua storia. Nel modo di vestire c'è il segno di un'identità da riscoprire
L’Egitto è un paese dalla tradizione millenaria, non a caso è spesso descritto come una delle culle della civiltà. Uno degli aspetti meno conosciuti della sua storia è la cultura dei suoi vestiti tradizionali. Per colmare questo vuoto, la storica dell’arte egiziana, Shahira Mehrez, sta scrivendo un’opera in quattro volumi per la casa editrice dell’Istituto Francese di Archeologia Orientale. Il primo volume, Costumes of Egypt: The Lost Legacies è già uscito. Il libro riassume decenni di ricerche di Shahira Mehrez e documenta e traccia l’origine di modi di vestire e gioielli delle donne egiziane finora non studiati, molti dei quali oggi sono ormai scomparsi. I costumi esaminati in questo primo volume dimostrano che, indipendentemente dalle distanze geografiche, oltre le diversità religiose ed etniche e attraverso migliaia di anni di storia e di civiltà successive, Nubiani, contadini della Valle del Nilo, beduini e abitanti delle oasi, sia cristiani sia musulmani, sono stati eredi dello stesso patrimonio. Antichi e nuovi simboli si sono fusi in un’unica tradizione, definendo un’identità egiziana sfaccettata ma armoniosa. Questa tradizione fornisce una prova innegabile e tangibile dell’unità del paese e testimonia il fatto che, nel corso della storia, queste diverse comunità hanno costituito le varie componenti di una nazione multiculturale e pluralistica.
Per comprendere la genesi di quest’opera, Succedeoggi ha in intervistato Shahira Mehrez.
Quando si appassionò ai vestiti tradizionale egiziani?
Il mio primo incontro con i costumi tradizionali avvenne nel 1960, quando mio fratello, di ritorno da un viaggio nel Sinai settentrionale, mi portò un abito beduino. Non ero mai stata lì di persona, dato che all’epoca gli egiziani avevano bisogno di un permesso speciale dal governatore militare per visitare la Penisola del Sinai e il “Distretto di Gaza”; questo era il nome dato al settore della Palestina sotto il dominio egiziano dopo la Nakba, l’occupazione delle terre arabe da parte di Israele nel 1948. Non avrei mai ottenuto l’autorizzazione, poiché diversi fattori giocavano a mio sfavore: ero una ragazza di sedici anni senza parenti di primo grado che vivessero in quell’area per assumersi la responsabilità di me e garantire il mio buon comportamento.
Questo abito cambiò la mia vita. Inizialmente influenzò solo il mio modo di vestire, permettendomi di apparire diversa dai miei coetanei occidentalizzati e dalle mode illustrate in Burda, Elle e Marie Claire, ma in breve tempo, essendo cresciuta in scuole francesi dove nei libri di storia si leggeva “nos ancêtres les Gaulois” e in un Paese in cui l’aggettivo baladī (“di campagna”, locale) era considerato uno dei termini più dispregiativi, divenne un simbolo.
Questo è il motivo per cui questo studio include solo i costumi femminili, poiché nacque come una ricerca molto personale di identità. Rivendicare questa eredità fu un primo passo verso la riconciliazione tra la mia educazione occidentale e il mio background tradizionale egiziano; non immaginavo minimamente che, per i miei concittadini, questi abiti mi avrebbero resa ancora più estranea!
Fu quindi la necessità di riconciliarsi con l’Egitto che la spinse?
Sì, la necessità di affermare la mia identità accese in me il desiderio di conoscere meglio la mia cultura e portò a decisioni più profonde e radicali. Innanzitutto, dopo essermi laureata in chimica, cambiai indirizzo e intrapresi un master in Arte e Architettura Islamica; in seguito, cercai e trovai Hassan Fathy, un visionario che credeva nell’uso del passato per creare il futuro, e attraverso di lui scoprii un altro Egitto: quello degli ultimi custodi della tradizione, delle persone semplici, dei contadini, degli abitanti delle oasi e dei beduini. Infine, rinunciando agli studi accademici e al mio Dottorato di Ricerca sulla Moschea/Madrasa del Sultano Hassan, scelsi di intraprendere un viaggio attraverso l’Egitto: di provincia in provincia, mi portò oltre i confini geografici, indietro di migliaia di anni, per documentare le ultime tracce di tradizioni millenarie che avevo visto nei musei, studiato nei libri, ma che non immaginavo potessero ancora sopravvivere alla fine del XX secolo. Quest’opera è il risultato di questa ricerca.
Ha anche la più grande collezione esistente di costumi tradizionali egiziani, me ne parola?
La scoperta del costume beduino del Sinai settentrionale aveva acceso la mia curiosità e iniziai a cercare abiti provenienti da altre regioni dell’Egitto. Le mie prime acquisizioni, nei primi anni Sessanta, furono abiti dell’Alto Egitto, un’area che conoscevo bene, poiché avevamo sempre trascorso le vacanze invernali visitando siti archeologici in quelle zone. L’abito del Sinai settentrionale mi aprì gli occhi. Alla fine degli anni Sessanta, Hassan Fathy mi introdusse alla Nuova Valle e lì scoprii un abito a Kharga e due a Dakhla. Riuscii anche ad acquistare una tunica di Siwa da alcuni amici che avevano sfidato sia la burocrazia militare che le dune del deserto per visitare questa oasi, prima della costruzione della strada asfaltata.
Mi consideravo molto fortunata ad aver trovato questi cinque abiti diversi e pensavo che la mia ricerca si fermasse lì. Non avrei mai immaginato di poter trovare altri costumi regionali, né sospettavo che queste cinque regioni avessero da offrire molto più dei pochi abiti che avevo raccolto. Cercai di saperne di più su di essi, ma la documentazione affidabile era scarsa. L’enorme quantità di fotografie dei primi del Novecento non poteva essere considerata attendibile, poiché, nella maggior parte dei casi, sembravano immagini “posate”. Esistevano diversi “generi” fotografici, ma il più diffuso ritraeva giovanissime ragazze, chiaramente scelte tra le classi urbane più povere, pagate e vestite per essere travestite da “contadine sexy”.
Si trattava di immagini “artistiche” che ritraevano bellezze dalla pelle scura, dagli occhi grandi e dai capelli neri, con il seno scoperto e vestite con abiti trasparenti e leggeri, evidentemente acquistati nei bazar per turisti. Queste foto sembravano rispondere a un certo concetto di erotismo “esotico”, se non addirittura a una forma primitiva di pornografia, e, a giudicare dalla loro quantità, dovevano essere economicamente redditizie. Talvolta la donna ritratta cambiava, ma l’abito rimaneva lo stesso; in altri casi, la stessa persona veniva fotografata in pose diverse con vestiti differenti. Questo non era molto rassicurante riguardo all’autenticità di questo tipo di documentazione.
Vi erano fotografie più autentiche?
Fotografie più genuine ritraevano matrone completamente coperte da indumenti esterni che non lasciavano intravedere nulla di ciò che indossavano sotto. Tuttavia, queste immagini sono state molto utili per lo studio, che finirà in un prossimo volume, che sto scrivendo su questi ampi mantelli, spesso chiamati milāya o fūṭa. Le foto posate non erano limitate agli studi fotografici professionali del Cairo e di Alessandria. La fine del XIX secolo segnò l’inizio dell’era delle esposizioni universali e la scoperta della tomba del giovane re Tutankhamon diede ulteriore impulso all’Egitto come meta di grande interesse per l’industria turistica in crescita. Viaggiatori provenienti da tutto il mondo esplorarono il paese per fotografare templi e camere funerarie appena portati alla luce. Aswan era al centro delle vacanze invernali “chic” della scena internazionale e ospitava numerosi studi fotografici professionali. Di conseguenza, i fotografi entrarono in contatto con popolazioni che fino a quel momento non erano mai state esposte al mondo moderno: Nubiani, nonché popoli nomadi e semi-nomadi come i Bishari e gli Ababda, che durante la stagione secca si avvicinavano alle rive del Nilo. Queste comunità erano probabilmente più facili da fotografare, poiché non dovevano nemmeno comprendere appieno ciò che stava accadendo e, sicuramente, erano meno diffidenti nei confronti degli stranieri rispetto agli scaltri contadini delle campagne egiziane.
A quest’epoca, nei primi del Novecento dobbiamo una serie di fotografie meravigliose, ma il problema era, ancora una volta, che queste immagini non erano pensate come una seria documentazione, bensì come rappresentazioni artistiche di creature curiose ed esotiche. Sebbene dovremmo certamente esserne grati, esse risultavano piuttosto sconcertanti: erano per lo più prive di data e lo stesso scatto veniva spesso riprodotto su diverse cartoline, ogni volta con una diversa identificazione, tanto che alla fine non ci si poteva fidare delle didascalie. I tratti fisici comuni tra Nubiani, Ababda e Bishari e il fatto che spesso adottassero stili di abbigliamento molto simili contribuivano sicuramente alla confusione. Tuttavia, anche quando le fotografie erano state originariamente etichettate in modo corretto, con il tempo e la mancanza di rigore accademico, le etichette originali vennero eliminate e alle immagini venne data una nuova identità.
Mi fa qualche esempio?
Un esempio significativo di questo fenomeno è una donna fotografata due volte da Pascal Sebah e descritta come “Nubiana”, ma quando la sua immagine è apparsa sui social media, è stata erroneamente identificata come “Bishari” e questo errore è stato perpetuato in pubblicazioni recenti. Per un’identificazione corretta, era fondamentale ricorrere alle testimonianze letterarie di viaggiatori e studiosi che descrivevano le condizioni di vita di queste diverse comunità e le differenze nei loro abiti e ornamenti. In questo caso specifico, l’abbigliamento della donna in questione – un tessuto bianco immacolato, simile a un sari – non corrisponde alle descrizioni fornite da fonti dell’epoca affidabili, le quali riferiscono che «le donne Bishari tessevano e indossavano stoffe grezze che una volta erano bianche e ora hanno il colore della terra». Il tessuto fine mostrato nella fotografia, apparentemente prodotto industrialmente e forse addirittura importato, poteva essere acquistato solo in un sua come quello di Aswan; esso corrisponde allo šuǧǧa, l’abbigliamento tradizionale dei villaggi nubiani Kenzi lungo il Nilo, e la sua adozione da parte di una donna Bishari implicherebbe che ella abbia abbandonato la sua identità pastorale nomade per adottare lo stile di vita delle comunità sedentarie. Inoltre, l’acconciatura e l’ornamento per capelli della donna nella fotografia di Sebah coincidono con le rappresentazioni ottocentesche delle Nubiane Kunuz, mentre fonti affidabili specificano che le donne Bishari contemporanee sono caratterizzate da trecce intrecciate con fili di perline di vetro e conchiglie di ciprea. Pertanto, oltre che dall’etichetta originale del fotografo, un’attribuzione Bishari è smentita anche da una grande quantità di prove inconfutabili.
Le cartoline dell’epoca non sono quindi affidabili?
Un altro problema legato alle cartoline artistiche è che, per renderle più attraenti ai potenziali clienti, venivano spesso colorate a mano, falsificando così le prove. Questo può essere particolarmente fuorviante quando queste fotografie non sono documentate e si trovano nelle collezioni online di importanti musei. Studi simili dovrebbero essere fatti anche quando si esaminano fotografie storiche dei beduini del deserto occidentale: esse sono solitamente etichettate come “Beduini o Berberi”, senza specificare il paese o la data, e i loro abiti sono talvolta colorati in modo fantasioso.
Oltre che cartoline, vi erano anche pittori che potevano essere utili?
Ho scoperto che i pittori orientalisti del XIX secolo erano più affidabili; spesso ritraevano le donne delle zone rurali nel loro ambiente naturale, mentre svolgevano le faccende quotidiane e indossavano riproduzioni esatte dei costumi regionali e degli accessori che io stessa ho raccolto alla fine del XX secolo. È possibile che i loro taccuini da schizzi e i pennelli colorati risultassero meno allarmanti per le donne di campagna rispetto alle scatole nere dei primi fotografi. Questi dipinti avevano anche il vantaggio di essere datati e di indicare spesso località specifiche.
Vi erano altri documenti che potevano esserle utili?
A parte queste prove iconografiche eclettiche e relativamente scarse, sembrava che nessuno si fosse mai interessato a documentare l’abbigliamento delle donne al di fuori dei principali centri urbani. Il piccolo Museo del Folklore alla Wekalat Al Ghuri, già nelle prime fasi della mia collezione, possedeva meno esemplari di quanti ne avessi io; erano mal etichettati e non esistevano archivi. Alla fine degli anni Settanta, scoprii una piccola pubblicazione ormai fuori stampa di Saad Al Khadem. Tuttavia, a parte alcune fotografie in bianco e nero di qualità scadente, alcuni nomi di località e date di acquisizione, non vi erano molte informazioni. Avevo sentito parlare di una buona collezione presso il Centro di Folklore a Tawfikiyya, ma tutto era in deposito e, come accade spesso nelle istituzioni governative, era chiuso agli estranei. Riuscii infine ad accedervi nei primi anni Ottanta, solo per scoprire che era anch’essa scarsamente documentata; dunque, non mi fu di grande aiuto, poiché ormai, a parte pochi pezzi eccezionali, la mia collezione era la più rappresentativa del paese.
Alla fine, come fece?
In assenza di fonti rilevanti, a metà degli anni Settanta decisi di esplorare il paese raccogliendo tutto ciò che potevo trovare sui costumi tradizionali, e finii per trascorrere tre settimane al mese fuori dal Cairo, esplorando la campagna, i deserti e le oasi. Alla fine degli anni Settanta, avevo identificato dieci aree in Egitto con abiti regionali distintivi: Nubia, Alto Egitto, Medio e Basso Egitto, le oasi di Kharga, Dakhla, Bahariya, Farafra, Siwa e la penisola del Sinai. Quest’ultima, tuttavia, era ancora inaccessibile a causa dell’occupazione israeliana e dovetti affidarmi alle visite irregolari dei venditori ambulanti beduini per procurarmi abiti. Per quanto riguarda il Delta, conoscevo solo uno o due vestiti, trovati casualmente lungo la strada per Kirdasa, a Giza. Fu la mia amica Nimat Kamel a mostrarmi come, anche nelle aree in cui erano caduti in disuso, potevamo rintracciarli prima che scomparissero del tutto. Nel giro di pochi anni, insieme riuscimmo a raccogliere una trentina di prototipi di abiti completamente diversi da quelli che avevo già collezionato.
Riuscì poi a trovare vestiti tradizionali anche del Sinai?
Nei primi anni Ottanta, in seguito al ritiro israeliano dal Sinai, le aree che erano rimaste isolate per la loro importanza strategica divennero accessibili. Potei finalmente visitare e conoscere le ricche tradizioni beduine del Nord Sinai e vedere come i vestiti erano mutati nel Sud Sinai in risposta ai cambiamenti socio-economici portati dall’occupazione. Il controllo militare si stava inoltre allentando sulla costa meridionale del Mar Rosso e gli abiti delle donne beduine Rashaida iniziarono ad apparire al Cairo. Il permesso per visitare le oasi di Siwa era ormai una formalità e, sebbene fosse ancora necessario pernottare a Marsa Matrouh, la nuova strada asfaltata compensava il tempo perso.
Vi erano zone in cui non ha più trovato traccia dei vestiti tradizionali?
Vi erano due aree, il Fayyum e la costa mediterranea a ovest di Alessandria, dove i costumi tradizionali sembravano irrimediabilmente perduti. Ciò era probabilmente dovuto al fatto che entrambe le regioni erano state continuamente esposte a influenze esterne: il Fayyum, nonostante fosse un’oasi, era stato per gran parte della sua storia considerato un sobborgo del Cairo e, già agli inizi del XX secolo, aveva abbandonato le tradizionali modalità di abbigliamento; le donne indossavano, come nel Delta, una lunga veste di cotone molto sobria chiamata gallabeyya fallahi. Per quanto riguarda le coste occidentali del Mediterraneo, fin dalla Prima Guerra Mondiale questa zona era stata un passaggio continuo di persone tra la Libia e Alessandria. In entrambe le aree, le donne che vidi, pur indossando ancora gioielli tradizionali e talvolta accessori tradizionali, vestivano con peculiari abiti “occidentalizzati”.
Riuscì a classificare tutti i vestiti?
Alla fine degli anni Ottanta, potei aggiungere al mio studio i costumi del Sud Sinai e delle popolazioni nomadi e semi-nomadi che abitavano lungo il litorale del Mar Rosso e mi ritrovai sommersa da un’incredibile diversità: ognuna delle dodici aree aveva molteplici varianti e, tranne in pochi casi, come in Nubia, dove le donne anziane ricordavano ancora come si erano sviluppati i loro costumi, mi trovai in difficoltà nel classificarli. Iniziai dividendo gli abiti di ogni regione geografica in categorie separate, basandomi sulle tecniche decorative e sui tipi di materiali grezzi utilizzati per la decorazione. Più ne acquistavo, più diventava facile rilevare caratteristiche comuni, implicando così che stessi trattando con abiti provenienti dalla stessa area e definendo un archetipo: l’incarnazione, in un determinato tempo e luogo, di concetti di decoro e bellezza conformi al consenso della comunità. Naturalmente, vi erano alcune differenze da un’interpretazione all’altra, probabilmente riflettendo preferenze individuali, ma queste raramente alteravano lo schema decorativo generale.
Divenne inoltre evidente che gli abiti di aree geografiche distanti condividevano alcune caratteristiche; tra queste vi era l’uso di particolari tecniche, punti di cucitura comparabili e/o motivi simili, talvolta leggermente modificati o riorganizzati in configurazioni diverse. Così scoprii che gli archetipi di regioni diverse potevano essere correlati tra loro.
Fu facile trovare gli ultimi vestiti tradizionali?
Durante le mie peregrinazioni, rimasi scioccata dalla velocità incredibile con cui il cambiamento avveniva: da un anno all’altro, modelli di vita che erano sopravvissuti per secoli venivano abbandonati. Nella maggior parte delle aree che visitai, i giovani erano, nella migliore delle ipotesi, o ignari o completamente indifferenti alla scomparsa di questo patrimonio: tristemente, scoprii che il loro disprezzo e derisione per tutto ciò che riguardava la tradizione erano profondamente radicati e perpetuavano atteggiamenti iniziati molto prima della loro nascita.
Ciò rifletteva le opinioni delle classi “istruite”, rappresentate, nelle zone rurali, da funzionari governativi, insegnanti e personale medico, così come dalle élite locali, tutte persone che, già agli inizi del XX secolo, avevano a loro volta abbandonato le “arretrate” tradizioni. In buona fede, consideravano loro dovere illuminare le popolazioni “sottosviluppate” e “modernizzarle”. Nulla fu fatto per invertire questa tendenza e, persino negli anni Sessanta, quando i cosiddetti “Palazzi della Cultura” furono istituiti in tutto il paese, essi, nella migliore delle ipotesi, promuovevano ciò che chiamavano “vera arte”, ossia le arti occidentali: teatro, pittura e scultura.
Tutte le arti tradizionali stavano scomparendo?
Non sono stati fatti sforzi per documentare, registrare o promuovere i mestieri tradizionali. Al contrario, in un periodo in cui il sapere artigianale era ancora presente e le materie prime ancora disponibili, invece di cercare di riabilitare le tradizioni agli occhi delle popolazioni locali organizzando mostre o allestendo piccoli musei, i Palazzi della Cultura praticavano ciò che Hassan Fathy aveva definito “auto-colonizzazione”: facevano del loro meglio per far perdere a queste comunità la fiducia in ogni aspetto della propria cultura. I villaggi, con la loro architettura ecosostenibile in mattoni di fango, i loro costumi tradizionali e l’uso di ceramiche e cesteria fatte a mano, venivano derisi e stigmatizzati come “arretrati”. Questa era una politica statale diffusa attraverso la sua macchina propagandistica, al punto che riapparve nelle commedie satiriche e negli sketch musicali con alcune delle star più popolari dell’allora fiorente industria cinematografica.
Qualcosa venne salvato?
L’unico interesse per le tradizioni regionali si limitava alla formazione di compagnie di danza folcloristica, “migliorate” con coreografie di stile occidentale, simili a quelle sovietiche e costumi di scena pasticciati, esibite a livello nazionale e internazionale per un pubblico incapace di rilevarne l’ibridazione. Negli anni Settanta, il Ministero degli Affari Sociali istituì una catena di piccoli negozi in tutto il paese sotto il nome di “Famiglie Produttive”. Questi avrebbero dovuto essere punti vendita per generare reddito, commercializzando manufatti caratteristici di ogni regione, ma erano gestiti da persone che non ne sapevano nulla. Esponevano generalmente articoli scadenti, che non potevano competere con quelli autentici e spesso erano realizzati con fibre sintetiche. Inoltre, non venivano mai esposti costumi, sia perché nessuno ricordava che fossero mai esistiti, sia perché non erano stati ritenuti abbastanza importanti da essere studiati e recuperati. L’intera esperienza era indicativa del grado di estraneità e alienazione delle autorità rispetto alle nostre tradizioni.
Qualcosa è poi cambiato?
Alla fine del XX secolo, la cancellazione della memoria era quasi completa e la maggior parte delle comunità aveva dimenticato di aver mai posseduto un costume tradizionale, figuriamoci sapere com’era fatto. Oggi, in Nubia, solo poche anziane indossano un abito tradizionale durante le festività nuziali, e Siwa è l’ultima regione che ancora produce un abito caratteristico, indossato a volte dalle spose ma più spesso realizzato per i turisti.
Così, la mia ricerca della mia stessa identità attraverso i costumi si è trasformata in un altro bisogno: preservare e documentare un patrimonio. In questo sforzo, mi sono affidata principalmente alla mia collezione e ad alcuni abiti appartenenti alla mia amica di sempre, Nimat Kamel. In quegli anni ho fatto nuove scoperte, due abiti ancora in possesso di conoscenti, la signora Talaat Badrawi e la signora Sherif Lutfy, mi hanno permesso di stabilire che gli abiti tallī non erano specifici dell’Alto Egitto. Ho inoltre scoperto nei depositi del Museo Nazionale della Civiltà Egizia (NMEC) e della Bibliotheca Alexandrina alcuni abiti che collegano le modalità di vestire delle oasi alla Valle del Nilo. Sono stata estremamente fortunata a identificare, nella collezione dell’Istituto di Folclore, un esemplare unico di un abito pre-1967 appartenente ai beduini del Sinai meridionale. Le fotografie dei primi del Novecento provenienti dagli archivi egiziani, come Dar al Hilal, hanno aiutato a confermare o smentire le mie scoperte. Tuttavia, pur avendo consultato la maggior parte degli archivi online dei musei con collezioni egiziane, ho trovato immagini interessanti relative agli abiti tradizionali solo presso il Musée du Quai Branly e la collezione del Textile Research Center (TRC) di Leida.
Altri archivi la hanno aiutata?
Ho utilizzato anche alcune fotografie provenienti da varie fonti inedite e ho ricostruito alcuni dei “perduti” ǧirǧār nubiani basandomi su immagini scattate dall’artista Margot Veillon negli anni Quaranta e dalla missione del Centro di Ricerca Sociale del 1960, entrambe conservate negli archivi fotografici dell’Università Americana del Cairo. La Collezione Al Sabah in Kuwait mi ha gentilmente fornito immagini di costumi storici che mi hanno permesso di collegare i motivi del XX secolo a schemi risalenti a secoli prima, mentre la collezione online di frammenti e campioni della Newberry Collection dell’Ashmolean Museum ha ulteriormente confermato questa continuità.
Con che metodo ha studiato la sua collezione?
C’era molto lavoro da fare: documentare gli abiti acquisiti in situ era un compito relativamente semplice, ma identificare quelli acquistati dai commercianti, solitamente restii a rivelare le loro fonti, era più problematico. Una volta identificati, tutti gli elementi dovevano essere datati, o almeno collocati in sequenze cronologiche, e diventava essenziale cercare e definire una serie di criteri di datazione. Era inoltre importante individuare somiglianze tra le varie regioni e determinare eventuali interconnessioni. Il fatto che in circa vent’anni fossi riuscita a raccogliere molti abiti da tutte le aree mi aveva permesso di notare cambiamenti nei loro schemi decorativi: in tutte le regioni, i prototipi più antichi, caratterizzati dall’uso di materiali preindustriali, presentavano composizioni ben definite; sugli abiti più recenti, le configurazioni risultavano deformate o ridotte nelle dimensioni, alcune unità omesse e i disegni modificati o trasformati in forme completamente diverse. Più l’abito era recente, più evidenti erano le deformazioni e le omissioni. Avevo bisogno di saperne di più su questi motivi e se un tempo fossero stati simboli importanti, poi degradati a semplici motivi decorativi. Era quindi essenziale risalire alle origini degli abiti e capire come fossero collegati ai costumi storici.
Come ha fatto?
Qui il mio background da storica dell’arte si è rivelato un grande vantaggio: la mia formazione in arte islamica, copta e faraonica mi ha aiutato a rintracciare i motivi, collegando così i costumi del XX secolo a tradizioni millenarie. I miei studi in arte islamica, inoltre, mi hanno permesso di accedere a informazioni, seppur scarse, ma comunque rilevanti, sui modi di vestire e sui nomi di abiti o tessuti nei cronisti medievali. La mia conoscenza dell’arabo mi ha anche aiutato a collegare termini alterati nel nostro vocabolario contemporaneo. Con mia grande sorpresa, ho scoperto che l’architettura classificata, gli oggetti nei musei e i testi antichi non erano le uniche fonti di prove storiche inconfutabili, e che i costumi del XX secolo, perpetuando schemi ed emblemi antichi, potevano completare il quadro fornendo quei “collegamenti mancanti” tanto necessari. Questo fenomeno non si limitava agli abiti, poiché spesso anche copricapi, accessori e gioielli conservavano caratteristiche risalenti fino all’epoca faraonica.
Quindi ha trovato una chiave per comprendere i simboli presenti sui vestiti, questo ha ampliato i suoi studi?
Ciò ha dato una nuova dimensione alla mia ricerca e, poiché il mio obiettivo si è ampliato, ho deciso di dividere i miei risultati in quattro volumi. Il primo è uno studio sugli abiti della Valle del Nilo e delle sue oasi. Tuttavia, come spiegato in precedenza, ho escluso la più grande di queste, il Fayyum, poiché il suo stretto legame con la capitale gli aveva fatto perdere molto presto le caratteristiche tipiche di un’oasi. Il secondo volume sarà dedicato ai popoli nomadi e semi-nomadi dell’Egitto: gli Ababda, i Bishari e i Rashaida della costa meridionale del Mar Rosso, gli Awlad Ali della costa mediterranea e i beduini del Sinai settentrionale e meridionale. Il terzo volume tratterà accessori e acconciature, mentre il quarto sarà dedicato all’ampio repertorio di gioielli tradizionali delle donne egiziane.


